martedì

Venerdì 13 : Non permettiamo a nessuno di farci vivere a metà

Ne abbiamo sentite tante in questi giorni sui tristi fatti di Parigi Non sarò certo io a lanciarmi in analisi geopolitiche, militari, strategiche e sociologiche rispetto a quanto avvenuto. Ci sono professionisti ben più formati che possono aiutarvi a districarvi nell'enorme e tragica complessità del momento attuale. Mi faccio solo una domanda: Come si ripercuote tutto questo nella nostra vita di tutti i giorni, nelle nostre scelte e nelle nostre relazioni? “Rinunciare a parte della nostra libertà in nome di una maggiore sicurezza”: il baratto che la storia ci mette d’innanzi è questo a mio parere. Non esiste una ricetta ma secondo me la dualità tra i 2 concetti espressi è lampante. Pensiamo che sia necessario mantenere alta la nostra consapevolezza ,comunque ognuno di noi la possa pensare e qualunque sia stata la nostra reazione alle notizie che giungevano da Parigi, in merito a democrazia e libertà : non facciamoci annichilire. Il colpo è forte ed è indirizzato a ciò che abbiamo di più vivace e vivo, di più generoso e morale: la nostra capacita di vivere in pace, di saper accettare l'altro, di accogliere la diversità, la nostra apertura, la nostra concezione democratica della collettività e dell'altro. Tutto questo va a colpire la nostra inclinazione a reinventarci e a rinnovare la nostra vita democratica al mutare della composizione della nostra società. Cerchiamo di mantenere ben intatto lo spirito creativo e la nostra voglia di vivere in una società libera. Se riusciremo a farlo con coraggio ed orgoglio allora potremo dire di non esserci fatti disorientare davanti alla tragedia e all'odio. Purtroppo uno degli scopi di queste stragi è chiaro: si vuole generare la nostra disgregazione, suscitare paura, farci vivere nell’angoscia; che ci guardiamo in cagnesco, che cominciamo a odiarci, a darci mille e più coltellate verbali e non solo. Quindi capite che avere paura di vivere, smettere di avere sogni e soprattutto odiare il prossimo,significa solo fare il gioco di chi ha progettato ed attuato gli attentati! Vogliamo diventare complici di chi vuole annientarci? Andare al ristorante, in discoteca , allo stadio sono gesti che dobbiamo continuare a scegliere e viverli con naturalezza e spirito di fratellanza. Come dice un proverbio spagnolo, “Vivir con miedo es como vivir a medias”, vivere con la paura è come vivere a metà. E vivere a metà è quello che rischiamo in questi momenti. Sta a noi non permetterlo. ViolentCoja is comin' back

lunedì

4 - Mandarini

I pesci boccheggiano nell’acquario, nuotando fra le sigarette spente che s’inabissano fino a posarsi sul fondo, in mezzo alle alghe e ai coralli finti. Per dare il colpo di grazia ai simpatici animaletti rossi, un ragazzo senza maglia versa Fernet Branca nell’acqua già torbida. C’è una ragazza in piedi sul divano, proprio di fianco alla finestra; le sue braccia sottili sono tese nell’aria e, con movimenti casuali, cercano d’intercettare i mandarini che arrivano dalla strada.
Il ragazzo, dopo aver finito la bottiglia nell’acquario, senza aver trascurato di scolarsene l’ultimo goccio, si sporge appena, riparandosi gli occhi con le mani. La strada è un mucchio di teste e braccia e corpi e gambe e soprattutto mandarini; dal piano di sotto, sotto alla camera in cui si sono chiusi il ragazzo e la ragazza, esce musica elettronica mista a grida. Ma ormai in casa non è rimasto più nessuno.
“Aprite! Aprite!” grida un giovane con il cappello, poi qualcuno gli mette in mano un mandarino e lui lo lancia, ridendo.
“Lasciateci scopare in pace.” Risponde il ragazzo alla finestra, con voce impastata, e poi si rivolge con lo sguardo alla ragazza in piedi sul divano, chiedendole assenso. Lei fa un cenno di sì e borbotta, divertita: “Ma dove li hanno presi tutti quei mandarini?”
I piedi scalpitano, le gambe zampettano fuori tempo, le teste ciondolano e le mani, quasi in automatico, scagliano mandarini.
Dopo qualche minuto di delirio i frutti arancioni finiscono, ma uno, entrando dalla finestra, ha colpito il lampadario della camera, rompendolo e regalando ai due ragazzi scampoli di buio. Dalla strada le urla continuano per tutta la notte e la musica rimbomba forte dalla sala, ma i due ragazzi non l’ascoltano più, perché hanno altro da fare, e neanche i pesci l’ascoltano più, perché sono morti.

3 - Sur la Seine

Lei si ergeva esile e statuaria sulla Senna, i piedi scalzi e graziosi avvolti in una polverosa nerezza poggiavano sul muretto, i suoi abiti tagliuzzati si muovevano gonfiati dall’aria tersa dell’autunno e i suoi occhi azzurri, che erano gli unici due puntini azzurri della notte parigina, fissavano asetticamente il lento scorrere del fiume.
“Non buttarti, amore mio.” Le disse lui, avanzando con falcate veloci ma eleganti. Si muoveva nel suo cappotto bucato, simile a un fantasma, e sollevava nell’aria, con la mano destra tremante, il pegno d’amore che lei credeva erroneamente lui le avesse sottratto.
“Tieni, amore.” Le disse, abbracciando le esili gambe, pallide come quelle di una regina antica, velate da calze strappate.
“Tieni, amore.” E le mise in mano il frusciante involucro marrone, all’interno del quale una bottiglia di vetro nero conserva le speranze di cui si abbeverano, nell’immaginario collettivo, i clochard di Parigi. Lei prese il sacchetto e se lo portò vicino alle labbra rossicce; stava per togliere il tappo e bere, mentre lui continuava a stringerle le gambe.
Ricordo che da quella distanza, dal café dove sorseggiavo l’ultima birra della serata, potevano sembrare davvero, per la loro lontananza o la mia opacità, figure poetiche di vagabondi o artisti o bohemien, e non due turisti ubriachi al termine di un lungo rincorrersi.
Ricordo di aver pensato “adesso scende”, proprio mentre coi suoi denti bianchi e piccolini, sfilava il tappo di sughero dalla bottiglia nera e, gettando uno sguardo in macchina, cioè verso la strada dove non c’era nessuno, se non la sua voglia di essere la scena clou di un qualche film, gettando uno sguardo in macchina piegò le gambe e contrasse i muscoli delle cosce. Poi saltò in alto e subito precipitò giù, come uno straccio o un abito infilato su una gruccia.

2 - Mike

Mike è entrato nel palazzo dall’ingresso secondario, perché la porta a vetri era bloccata dagli imbianchini che, seguendo le indicazioni dell’amministratore, stavano ridipingendo l’atrio. Salendo le scale per andare al quarto piano, al suo appartamento, ha estratto dalla tasca dei jeans un foglietto di carta a quadretti, consunto, piegato in modo irregolare, e l’ha riletto per l’ennesima volta.
I suoi piedi si sono bloccati sul terzo gradino e, dopo un attimo di esitazione, l’hanno riportato giù, al piano terra, dove i pittori schizzavano e stendevano mani rosa pallido. Mike ha preso un barattolo senza farsi vedere e, nascosto nel sottoscala, si è versato la vernice in bocca, affogandosi.

sabato

1 - Floz

Il camion della nettezza urbana ha svoltato in sgommata sulla cinquantaseiesima. L’autista doveva essere ubriaco o pazzo. Le ruote di sinistra si sono sollevate da terra e quelle di destra, che sostenevano tutto il peso della ferraglia, hanno cigolato.
L’auto di Floz sfrecciava nella direzione opposta, stava sorpassando un taxi a velocità eccessiva. Dal marciapiede si sentiva la musica uscire dai finestrini, era musica classica suonata forte come a un concerto rock. Ricordo di aver pensato “quello è Floz”, un attimo prima di scorgere il camion.
Un secondo dopo era tutto uno stridere di freni, uno schizzare di gomme sull’asfalto e poi, inevitabile, il botto. Pezzi di ferraglia contro i palazzi e urla e sirene e fumo nero. Il camion era entrato in profondità nell’auto di Floz, come un pugno, e le aveva fatto sputare vetri e metallo, stritolandola. Il corpo di Floz si era compresso e poi disgregato; un pezzo di braccio mi schizzò contro, facendomi rovesciare il caffè che avevo appena comprato da Starbucks.

venerdì

Without the help of Jesus

Si sentiva chiaramente quell'odore prodotto dalla somma di sudore e alcool e umanità, mentre luci bianche alogene pulsavano ad una velocita approssimativa di 12:sec facendo (in)volontariamente sembrare quella massa sociale dondolante/omogenea come dentro una esperienza post-nucleare nella quale balli propriziatori e trascendenze corporali tentavano di ottenere conforto o assoluzione da dèi ontologicamente immuni ad ogni tipo di esperienza terrena, nucleare o meno. Una persona al mio fianco, bassa, dal vestito leggero senza reggiseno si abbandona alle labbra e lingua stranamente bianca di una persona bionda a sua volta priva di reggiseno, mentre le sue braccia larghe ondulanti come in un flusso di aria invisibile paiono sottolineare la distanza tra la sua mente razionale ed il suo piacere momentaneo. Con la mano libera da un bicchiere tumbler grande quasi pieno di sostanze alcoliche stringo l'interno coscia di una delle due persone, provocando a tratti sospiri profondi che costringono (la persona) ad interrompere l'attività orale con seguente e lento assaporamento da parte dell'altra persona dei suoi (della persona) seni sui quali era visibile un sottile velo di sudore caldo e potenzialmente televisivo. La musica è assordante, un regolare suono elettronico vuoto di pretese eppure in grado di incantare, impulsi di una guerra fatta di nulla della quale tutti eravamo vittime temporanee. Mi accendo una sigaretta contro ogni legge sociale vigente - nessuno rispetta nessuna legge in guerra, penso - e osservo il fumo confondersi in quella cappa, sopra le teste delle persone dondolanti sotto il mio palco oltre i miei divanetti dietro la corda grossa e rossa protetta da una persona di colore che se fosse stata caucasica sarebbe apparsa semplicemente grassa. Passando la mano dentro i jeans stretti della persona - una delle due non ha importanza ovviamente - e sentendo la sua pelle curata e umida mentre la mia lingua che per quanto ne so potrebbe essere altrettanto bianca le assapora il capezzolo destro, lei mi prende la sigaretta non guardandomi attraverso due occhi stretti e che chiedono solo di essere uccisi di ormoni, e la fuma in un modo che non credevo possibile. La seconda persona è adesso impegnata a mordere il collo dell'altra e tenere la mano delicata e rosa dentro i miei pantaloni. La grossa persona di colore mi guarda e serio mi fa un cenno di assenso. Lo fisso alcuni secondi. Penso che non ho la minima idea di cosa sto facendo o cercando o evitando. Penso di voler poter essere normale.

EH 2

future devil mouth

“Il fatto è che il tempo scorre in un verso solo, ma si riesce
a comprenderne il senso solo ripercorrendolo nell’altro:
perciò, ora, nel ricordo, rivedo noi che stiamo andando
dritti in bocca al demonio, ma in realtà non era così,
noi non sapevamo dove stavamo andando, non ne avevamo
la minima idea di cosa ci aspettava”.Quindi mi viene da pensare che bisogna assolutamente agire,in modo da creare materiale umano ed emozionale di discussione per il futuro,che inevitabilmente stiamo creando adesso.

Alberto Quintali

mercoledì

Quando Stevenson Kusumano prese la parola, nel preciso istante in cui il suo oramai fragile e quasi irrimediabilmente fottuto sistema nervoso stava per consentirgli di pronunciare poche parole tremanti e tuttosommato abbastanza banali - dopotutto come gli aveva sussurrato alcuni minuti prima Ms. Rosemary ('Dickie')* Annie tutti loro ci erano passati e tutti avevano pensato, ne era sicura, le stesse cose e inevitabilmente dopo alcuni minuti di parole incerte e caratterizzate da una sintassi alquanto precaria e/o indecifrabile le cose si sarebbero messe 'sul binario giusto', così disse R.A. pochi minuti prima con un piccolo luccicante pezzetto di basilico tra gli incisivi frontali superiori che si manifestò conseguentemente ad un suo sorriso accerchiato da profonde rughe nere, le mani nascoste nelle tasche - esattamente in quel momento, dalla strada una voce arrivò nella sala invasa dalla bianca luce al neon, passando attraverso la porta sulla quale erano incise le lettere AA MEETING e subito sotto (a spray) FAGGOTS, quindi lungo lo stretto corridoio formato dai due quadrati di sedie nere del tipo all'occorrenza richiudibili, per finire poi sul palco sulla sedia isolata e rivolta al contrario e la faccia bianca e spenta di Mr. Kusumano. Si sentiva ancora il rumore della pioggia.
K. non era mai stato un grande oratore, e quasi certamente mancava della conoscenza di larga parte della figura storica del medesimo. K. beveva con regolarità, Gin con più insistenza, e questo non poteva in alcun modo aiutarlo in una eventuale carriera oratoria, pensò K. Respirò a fondo, cercando di sentire un briciolo di vita emergere da qualche parte dentro il suo corpo disgustosamente magro e opaco e ricurvo, senza ottenere un successo anche solo parziale, come accadeva in ogni suo tentativo da un periodo troppo lungo e stretto per essere ricordato. Da chiunque, ed in particolare da Stevenson Kusumano. Il gruppo di quella sera, 11.27 pm EC, si identificava con il nome 'Bianconiglio', etimologia di strana qualità se associata ai volti delle anime perse presenti e sedute con strane inclinazioni sulle sedie nere, perlopiù in modo agitato/nevrotico. Ma alla fine nessuno di loro si poteva permettere il lusso di analizzarne la semiotica intrinseca, e così stavano lì, a fissare Mr. Kusumano negli occhi stanchi aspettando di sentire una salvezza indiretta, una immedesimazione, una complicità.
- e ciò che più mi spaventa è che la mia storia la conoscete già tutti. Anche chi ancora non l'ha capito.

* Tale soprannome si riferiva ad uno spiacevole inconveniente domestico accaduto alcuni anni prima, durante il quale il marito della signora R. rimase fatalmente ucciso a seguito di un taglio netto dell'organo riproduttivo per mano del paio di forbici da cucina solitamente usate nel giorno del Ringraziamento, e che nel loro cassetto in basso accanto al forno erano sempre state anonime e abbastanza noiose. Ms. R., la quale era nell'occasione dietro le suddette forbici, fu ritenuta in poco più di 5 minuti totalmente schizzata/malata/fatta dal terzo tribunale civile ordinario, e così confinata prima in una struttura di aiuto psichiatrico, e quindi ad attendere vari gruppi terapeutici, di cui quello del Bianconiglio (vedi in seguito) era per una serie di motivi di gran lunga il suo preferito.

EH2

venerdì

Il saggio è indifferente

Al pomeriggio ho provato a dormire ma non ci sono riuscito. Poi sono passato da Sciatz per ridargli il lettore cd. Era al telefono. Mentre aspettavo mi sono seduto sul suo letto a leggere il Tao di Laozi, trovato sul suo comodino.
Sulla punta dei piedi si perde l’equilibrio.
Con le gambe larghe non si cammina.
Chi si mette in mostra non risalta.
Chi pretende di aver ragione non si impone.
Chi si vanta non ha merito.
Chi si gloria non emerge.
Tali atteggiamenti davanti al Tao
sono come avanzi o parole ripetute fino alla nausea.
Cose che ognuno detesta.
Perciò colui che possiede il Tao non se ne occupa.

Sempre al telefono si è vestito e messo le scarpe, mentre io leggevo. Ha staccato un quadro dalla parete, con l’intenzione di regalarmelo, e me l’ha dato. Poi siamo usciti dal portone e sua madre mi ha urlato dalla finestra di ricordargli le uova. Sono partito in macchina ancora leggendo e, quando ha messo giù il telefono, gli ho chiesto “che uova?”.
Quando siamo arrivati alla cooperativa di agricoltura biologica io non sono sceso e, col finestrino abbassato, ho continuato a leggere il Tao. Aprendo pagine a caso.
Uno stato si governa con la rettitudine
una guerra si combatte con l’astuzia
ma il mondo si conquista con la non-azione.
Come so che le cose stanno così?
Da questo.
Più leggi e divieti ci sono nel mondo
più il popolo diventa povero.
Più il popolo possiede strumenti efficaci
più il paese è sconvolto.
Più gli uomini sono scaltri nelle arti
più oggetti bizzarri vengono prodotti.
Più si emanano leggi e decreti
più si moltiplicano ladri e briganti.
Perciò il saggio dice:
se pratico il non-agire il popolo da solo si riforma
se amo la quiete il popolo da solo si rettifica
se mi astengo dagli affari il popolo da solo si arricchisce
se sono senza desideri il popolo da solo torna alla semplicità.

Quando Sciatz esce con sei uova, nonostante sua mamma ne volesse dieci, gli passo il libricino chiedendogli se ha letto questa pagina. Mi fa segno di sì. Gli dico che dovrebbe essere la sua tesi di laurea in scienze politiche.
Poi arriviamo in gelateria, da Nico, e scopriamo che è chiusa. Prima di risalire in macchina però incontriamo Ianno: suo fratello era in classe con noi alle elementari. Ianno ha più o meno ventidue anni e ci racconta con la sua parlata veloce senza erre che lavora e convive con la sua ragazza e vuole comprare una bella casa grande in montagna dove la sua ragazza aprirà un ranch di cavalli e lui potrà fare moto-cross – perché nel frattempo si è dedicato al moto-cross – e pensano di comprarla a Trinità, che è un posto dopo San Polo e l’hanno già vista ma devono mettere via dei soldi ma se ne vogliono andare da qui e stanno davvero molto bene insieme.
Arriva anche la sua ragazza, che è più alta di lui, e specifica che Trinità non è proprio dopo San Polo, ma piuttosto sopra San Polo.
Prima di salire in macchina arriva la Je, che a sua volta si accorge della gelateria chiusa: decidiamo di andare dalla Tilde.
Facciamo in tempo a fermarci un attimo in biblioteca, perché Sciatz deve fare non so cosa. Non mi oppongo e ne approfitto per leggere ancora un po’ il Tao.
Cielo e terra sono indifferenti
trattano tutti gli esseri come cani di paglia.
Il saggio è indifferente
tratta il popolo come cani di paglia.
Lo spazio fra cielo e terra
è simile a un mantice
svuotato non si esaurisce
messo in moto produce sempre di più.
Le troppe parole si esauriscono presto.
È meglio tenersi nel mezzo.

Per un attimo credo seriamente che la lettura del Tao potrebbe prendere il posto che ha avuto, nelle ore di noia di Settembre, l’ascolto di Lily, Rosemary and the Jack of Hearts. Ma proprio mentre soppeso la possibilità, torna Sciatz.
Dalla Tilde mi offre un gelato pesantissimo che sostituisce parte del pranzo che ho saltato. La Je ci aspetta fuori e viene immediatamente subissata da richieste di denaro. Sciatz vuole soldi per il nuovo Stanzino. Io le dico che potrebbe usare il suo ascendente per convincere gente ad entrare nel nostro progetto – che, fra parentesi, ancora non esiste – e permetterci in questo modo di assecondare le mire espansionistiche di Cagno senza spendere troppo.
Cagno telefona a Sciatz e dice che ha trovato un posto perfetto in cui fare il nostro Stanzino, la nostra associazione culturale, il nostro luogo di ritrovo, scambio, organizzazione eventi, concerti mostre orge, progettazione rivoluzioni politiche e/o culturali.
La Je ci spiega che dei suoi amici hanno fatto più o meno la stessa cosa. Hanno tre anni meno di noi, un luogo che gli è stato affidato da chissà che associazione, e poche idee. Ma quelle poche le realizzano: domenica, ad esempio, hanno inaugurato una serata-cineforum che contano di ripetere.
Poi parliamo un po’ di non so cosa, finché la Je dice che se ne deve andare e coerentemente con questo concetto se ne va. Stiamo per alzarci anche noi quando arriva la mamma della Martini, un’altra nostra ex-compagna di classe delle elementari. Ci fa un sorrisone e si appoggia con i palmi delle mani sul nostro tavolino: “Allora come state, ragazzi? Cosa mi raccontate di bello? Come va?” E poi, senza lasciarci rispondere. “State bene? Cosa fate adesso? Lavorate, no?”
Le macchine passano nella strada dietro di noi. La Tilde sta chiudendo o ormai è ora di cena. Noi restiamo in silenzio un attimo, finché Sciatz sussurra un “no” e anch’io, con una smorfia, confermo. “No, non lavoriamo.”
Lo accompagno a casa e, per farmi lasciare il Tao – che non gli darò mai più – invento la scusa del nostro blog su cui non scrivo da un anno: gli dico che scriverò un post che parla del Tao e che fa delle proposte per lo stanzino.
Sciatz è titubante, ma alla fine mi lascia il libricino; sapendo che è un errore.
Trenta raggi convergono in un mozzo
dal vuoto centrale dipende l’utilità del carro.
Si modella l’argilla per fare un vaso
dal vuoto interno dipende l’utilità dello stesso.
Si aprono porte e finestre per fare una casa.
Infatti è solo dal non-essere
che si realizza l’essere.


Jack of Hearts.

Situazione - caso n.7313

Ci troviamo dunque obbligati ad andare avanti, obbligati a continuare la nostra storia, come se si fosse interrotta per un intermezzo pubblicitario. Sarebbe bello se a questo punto le parole non fossero più impresse sullo schermo, ma fossero lette da una voce femminile. Come se la nostra storia ci venisse raccontata da altri. Come se sapessimo già che ad una parola ne seguirà un’altra, sempre con la stessa cadenza, la stessa sonorità. Scivolando in questo modo, la voce si lascerebbe seguire, dentro ai meandri dell’esperienza, nelle soffitte dell’immaginazione, nel furore delle azioni e nella ricchezza dei dialoghi. Andremmo avanti così, fino alla fine delle parole, lasciandoci cullare dalle visioni che, diverse per ognuno, hanno l’intimità di ciò che nessun altro può sapere, il calore di un posto inaccessibile a chiunque tentasse di arrivarvi.

Il problema è che spesso questo non accade. Non ci sono parole. Non c’è voce femminile che ci legga le nostre azioni, spiegandoci a noi stessi, raccontandoci - o almeno facendoci intuire - dove stiamo andando. Dov’è la narratrice della nostra vita? Dove sono le frasi su cui lasciarsi andare, dimenticandoci di noi stessi per un po’, persi tra avventure e viaggi, tra luoghi polverosi e sentieri di montagna? Dov’è la nostra vita?

E’ come se la storia fosse arrivata ad un certo punto, ci fosse stato l’intermezzo pubblicitario e, infine, la voce non fosse più tornata. Allora mi sono trovato solo, a guardare uno spazio fisso senza percepirne la profondità. Cosa stavo facendo? Avevo la bocca impastata e gli occhi ancora incantati, ma il fenomeno più curioso veniva dalle orecchie. Dov’è ciò che le riempiva? Cos’è questa sensazione di vuoto? Nessuna risposta. Mi guardo attorno, aspettando che la voce riprenda a raccontarmi cosa vedo, ma non so cosa vedo, cosa sento, cosa devo fare. Non lo so. Posso immaginare cosa direbbe la voce, ma io non sono la voce e, soprattutto non so cosa raccontare di ciò che mi sta intorno.

“Ci troviamo a questo punto obbligati ad andare avanti, a continuare la nostra storia, nonostante la voce non abbia fatto ritorno dopo lo stacco pubblicitario. Gli oggetti, le persone, le situazioni sono immersi in una fredda oscenità. Provo a mettere in fila due parole, ma il risultato è una scarica di diarrea vocale. Come l’opposto di re mida trasformo in merda tutto quello che tocco. Guardo la lampada, mi dico ‘lampada’. Ma non è una lampada: infatti è merda. E’ merda perché non ha il gusto della lampada che c’era prima. E’ merda perché, nonostante tutto, io saprò per sempre che non è vero ciò che sto dicendo. Saprò di ingannare me stesso e gli altri. Io vi dico ‘lampada’, voi pensate ‘lampada’, invece è merda. Una bella fregatura. Credetemi, se sapessi come fare, se sentissi la voce da qualche parte farei parlare lei, o magari le farei da amplificatore. Il problema è che non la sento, per cui mi tocca ingannarvi mentre inganno me stesso, vendendo a tutti lampade che lampade non sono. Però cosa potete chiedere a me, che sono deluso quanto voi, se non di ammettere che non so cosa sto dicendo?”


Sig.Q

martedì

SIMPLY IN TRAIN

Eravamo in treno e transitavamo su un grande fiume;il sole era ancora assente e solo il rumore del vagone contro le vecchie rotaie caratterizzava la plumbea e stanca atmosfera.Melanie era bellissima e allo stesso tempo caotica:non potevi spiegarla o descriverla se non vedendola.Ma era terribilmente ignorante,non capiva e non coglieva gli atteggiamenti delle persone.Tutti gli erano sempre stati vicini per la sua bellezza e la sua presenza sensualmente prorompente: aveva 27 anni ed era nel pieno della sua fisicità.Aprì lo sportello del vagone un signore sulla cinquantina che,come tutti quelli che passavano,la squadrò da capo a piedi e decise di sparargli 3 colpi in testa.Poi si girò tornando indietro,tirò il freno d'emergenza e scese in aperta campagna avanzando per i campi arati.Lo vidi scomparire nella nebbia come un fantasma dei racconti settecenteschi.

sabato

VF32AIMEC

Tutto quello che riusciremo a fare dipenderà dalla nostra volontà (di voler negare il senso).E dalle contingenze, che sono la migliore scusa per la non riuscita.

giovedì

I got to keep moving, blues falling down like hail

Il 23 novembre 1936, in una stanza d’albergo di San Antonio, Robert Johnson registrava “Kindhearted Woman Blues” per un negoziante di dischi di Jackson, Mississippi. Robert Johnson era nero, bluesman e forte bevitore, caratteristiche che, ai tempi, molti afroamericani potevano vantare. Diversamente da molti afroamericani, Robert Johnson avrebbe girato gli Stati Uniti vestendo abiti eleganti e suonando ogni sera in locali diversi perché, diversamente da molti afroamericani, suonava il blues come nessuno prima di lui. Robert Johnson era uno dei primi negri a cui la società americana permetteva di non fare il negro dei campi per fare il negro che canta.
Incidendo quella canzone, la società americana stava incidendo dentro se stessa un nuovo modo di pensare: lo stesso che nel 1985 avrebbe permesso di trasmettere nell’etere nazionale il canale televisivo ‘Home Shopping Network’. “Se un negro vende, non ha senso censurarlo in quanto negro, perché significa perdere un potenziale guadagno”. Nel 1936 in pochi avrebbero difeso questo argomento, a parte qualche liberal e qualche commerciante di dischi. Una grossa fetta della società avrebbe obbiettato che “i negri che oggi incidono un disco blues, domani pretenderanno di essere presidenti degli Stati Uniti d’America”.
Se qualcuno volesse descrivere quella società usando il vocabolario delle persone dell’epoca, potrebbe adottare diverse prospettive. Ad un estremo c’è la prospettiva del negro dei campi, verso il centro quella Robert Johnson, verso il centro ma dall’altra parte quella del commerciante di dischi, all’estremo opposto c’è il Ku Klux Klan. Un filosofo marxista direbbe che la realtà americana degli anni trenta è quella vista dal negro dei campi, un liberale sarebbe conteso tra Robert Johnson e il commerciante, un teorico della razza ariana tenderebbe verso la realtà spiegata dal Ku Klux Klan. Più realtà coesistono. Nessuna descrizione della società può definirsi oggettiva o neutrale. Non esiste ‘La Realtà’: panettone confezionato da consumarsi secondo i gusti. Esistono sovrapposizioni, simulazioni, sentieri biforcuti e temporalità continue dentro labirinti di specchi. Un magma in cui siamo immersi fino ai capelli e da cui non possiamo uscire vivi o liberi.
Dobbiamo accettarlo, ma credere che questo significhi rinunciare a darsi delle risposte (e quindi concludere di non voler cambiare nulla) è contraddittorio. Se non esiste una posizione privilegiata da cui guardare le realtà, anche sostenere che la speranza sia ontologicamente scomparsa, o che non esistono risposte, diventa una risposta, una nuova ontologia. Il che contraddice l’idea iniziale di voler fuggire l’ontologia in nome della “consapevolezza”. Non possiamo raggiungere una consapevolezza distaccata, possiamo solo incarnare le prospettive che decidiamo di sostenere più o meno consapevolmente. La vita quotidiana ne è un esempio: se da un lato l’uomo postmoderno si dichiara incredulo nei confronti delle metanarrative, dall’altro, per sopravvivere, è costretto a costruire giorno dopo giorno delle narrative. Queste narrative, esplicitamente o implicitamente, nascondono delle metanarrative. Se compio il gesto di mangiare è perché voglio farlo. Voglio farlo perché sono io a comunicare al mio braccio di muoversi per portare il cibo alla bocca. Se penso che mangiare non abbia delle implicazioni al livello delle metanarrative, mi sbaglio. Perché voler mangiare? Perché voler sopravvivere? Ogni pensiero è direttamente o indirettamente influenzato dalla nostra volontà. Ogni teoria è per qualche scopo o per qualcuno.
Ciò significa che anche quello che sto scrivendo è orientato dalla mia volontà. Io voglio rifiutare l’assoluto perché mi da un senso di claustrofobia, voglio dubitare per scelta. Voglio sostenere il relativismo perché non mi piace pensare che qualcuno possa rivendicare un accesso privilegiato alla verità o alla realtà. Voglio cercare la prospettiva di ogni discorso perché questo mi permette di capire meglio come si relaziona con la mia volontà. Voglio credere che le realtà siano costruite intersoggettivamente, tra persone, perché questo mi fa sentire più libero e mi da più gioia. Oltre a questo voglio essere coerente, quindi voglio accettare le conseguenze logiche delle mie affermazioni. Subordinare la verità alla volontà significa riconoscere che quello che dico ha, come fonte di giustificazione ultima, me stesso anziché il mondo. Significa riconoscere che la mia costruzione è un castello di carte senza valore intrinseco. Significa accettare che non sto procedendo verso nessuna fine della storia in cui il bene trionferà sul male, né che esistono 'meglio' o 'peggio' oggettivi al di fuori delle mie spiegazioni. Immagino che significhi anche ammettere il mio egoismo ed egocentrismo.
Questo è un esempio ristretto e scarabocchiato della mia volontà, di quello che credo di essere io oggi. Come ho detto, non è 'giusto' o 'meglio' in modo definitivo, è un discorso basato su un vocabolario. Il mio vocabolario dice che io voglio, ma che la mia volontà non può esprimere il suo potenziale se resta sola.
Per cui la mia domanda centrale diventa: cosa vogliamo noi oggi?


lioton

domenica

Arctic dreams

Come può una persona vivere un'esistenza morale e compassionevole quando è pienamente cosciente del sangue,dell'orrore inerente alla vita,quando trova l'oscurità non solo nella sua cultura, ma dentro di se?
Se esiste uno stadio in cui una persona diventa veramente adulta, dev'essere quando comprende l'ironia insita nella sua evoluzione e accetta la responsabilità di una vita vissuta nel mezzo di questo paradosso.Una persona deve vivere immersa nelle contraddizioni, perchè se tutte le contraddizioni venissero eliminate contemporaneamente,la vita crollerebbe.Semplicemente, non esistono risposte ad alcune delle grandi e pressanti domande; (o meglio,esistono, se uno ha la forza di crederci).
Si continua a viverle,rendendo la propria vita una degna espressione dell'aspirazione alla luce.

Hawk Paulen

venerdì

bevete l'acqua del rubinetto

l' acqua è un bene pubblico, inalienabile e che deve essere gratuito per tutti. e io, e spero tutti, mi batterò perchè lo rimanga:è un discorso chiaro ed è un diritto/bene fondamentale che non deve alimentare profitti.
Ho detto prima che l'acqua dev'essere gratuita; l'unica cosa che dobbiamo pagare è il sistema distributivo di tale risorsa.La manutenzione del sistema idrico. e qui discendono 2 problemi/costumi fondamentali.
L'acqua la dobbiamo pagare per la comodità (arriva nell nostre case,mentre gli antichi se la andavano a prendere dov'era..anche se nell'impero romano gli acquedotti erano gratuiti...) e la manutenzione della rete e le persone che ci lavorano.
TUTTO OVVIAMENTE CON SOLDI PUBBLICI.Il concetto virtuoso è (sarebbe) che dato che sono tasse (e ce ne sono poche di risorse derivanti da tasse. dato l'elusione,l'evasione...) dovremmo limitare gli sprechi di soldi e di acqua con azioni mirate in modo da pagare oggi, per interventi struttuali sulla rete idrica, che consentano di pagare meno nel lungo periodo.

E' stato fatto il contrario: si è pagato poco nel passato,mettendo pezze qua e là (e usando i soldi per altro,come asfaltare le strade e sviluppare il trasporto su gomma..per creare però posti di lavoro..FIAT e mercato automotive...trasporto su gomma è un' altra piaga infrastrutturale ed ambientale dell'italia: si è pensato a costuire strade ed automobili e adesso per spostare merci e persone paghiamo di più inquiniamo di più,mentre se avessimo usato i fondi per una diversificazione equa e mista del sistema di trasporto avremmo ogi vantaggi economici,ambientali e di tempo per km percorso. Si è voluto creare un monopolio per il trasporto :GOMMA, ed oggi ne paghiamo tutti le conseguenze.)
PER ACQUA il ragionamento è diverso ma con accezioni simili.
Si è voluto spendere poco per usare fondi per altro,facendo manutenazioni tappabuchi ma non strutturali ed oggi ci troviamo con immensi danni e sprechi allucinanti.

Purtroppo i responsabili di tutto ciò sono gli amministratori pubblici che noi abbiamo votato (dando pochissima importanza alla gestione idrica, che non compare neanche nei programmi dei candidati premier/sindaci/governatori/presidenti perchè "tanto in Italia c'è tanta acqua").

Se dovessi fare un parallelo con la crisi economica direi che fino a 2 anni fa si diceva "tanto il mercato va bene" poi (dato il momento di grassa in cui le risorse economiche c'erano...) non si sono fatti interventi di sistema (formazione,istruzione,ricerca,innovazione...) e adesso ci troviamo senza basi su queste tematiche, ma se prima c'erano i soldi a coprire queste mancanze struttuali del sistema paese adesso non ci sono neanche quelli..



torniamo all'acqua...
Allora si è dato tutto in gestione ai privati ,perchè si è pensato che applicando il criterio dell'efficienza economica dei privati si migliorasse e razionalizasse il sistema idrico.

MA i privati si sono trovati tra le mani un colabrodo con enormi falle e costi di gestione altissimi e allora hanno alzato i prezzi della risorsa per almeno andare in pareggio di bilancio.



Questa è la premessa per ITALIA ma un po' per tutto il mondo (chi più chi meno) a parte gli stati nord-erupei...



Credo che un ente pubblio efficiente sia la soluzione migliore, MA dato che giustamente le istituzioni non guardano ai costi-ricavi ma ai costi-benefici spesso creano un disavanzo economico insopportabile per le casse pubbliche, che allora demandano al privato.



ESEMPIO NUMERICO:se l'ente pubblico ti vende l'acqua a 5 e il prezzo 5 è equo e sostenbile economicamente per i cittadini, non lo è per l'ente che ha dei costi di 7-8 dato la carente situazione del sistema idrico-fognario. fortunatamente per un periodo te la vende a 5 perchè non deve per forza far quadrare il bilancio e può aver altre tasse che compensano tale disavanzo economico. Alla lunga però il disavanzo aumenta ed è impossibile coprirlo economicamente con altre entrate da tasse. allora l'ente passa tutto al privato (con forme giuridiche comunque di controllo pubblico che però non incidono molto sulle azioni e scelte del privato..vedi municipalizzate) Arriva il privato che ti vende l'acqua almeno a 8 per andare in pari (giustamente: il privato non è cattivo, ma in quanto privato non può permettersi un disavanzo economico e giustamente vuole almeno pareggiare,ma anche guadagnarci quindi ti venderà a 9 o 10.) Questo sembra ingiusto al cittadino (abituato a non pagare gli sprechi idrici del suo territorio).



In realtà non ha niente di illegale o ingiusto .



l'acqua costa pochissimo al rubinetto (costa in media 1 euro al metro cubo) quindi costa 1 euro per mille litri: E CON QUESTO DATO vi faccio solo capire quanto ci guadagna (ma milioni di euro... su un bene pubblcio che pazzescamente compriamo al supermercato..io no!... chi vende l'acqua imbottigliata in bottiglie di PET (polietilene=plastica), che crea tantissimi rifiuti e inquinamento da trasporto...ovviamente su gomma...
spero di essere stato chiaro ,ma forse mi sono espresso male,ne parleremo....



e come vedete dalla mole del post sono temi che mi appassionano molto; si chiama "sostenbilità (intesa come sostenibilità economica ambientale e sociale) delle risorse e dei beni pubblici"

so che il post è molto tecnico ma ci tenevo a condividerlo con voi

buona notte

mercoledì

Una sana irrequietezza porta ad una visione del futuro

Ovviamente parlandomi di ambiente e sviluppo sfondate con me una porta aperta per la quale m’impegno e mi documento lavorandoci tutti i giorni.Non voglio impostare qui discorsi operativi sulle politiche ambientali o su cosa si sta facendo e cosa si potrebbe fare.Dico solo che la realtà o le diverse realtà sono impostate su indicatori,spesso quantitativi ma anche qualitativi.La nuova realtà potrebbe nascere adottando dei riferimenti diversi o meglio complementari ed integrativi rispetto a quelli che usiamo oggi, quali il PIL o la valuta monetaria.Se tuto avesse un indicatore ambientale (e ne esistono già,ma non sono ancora in voga presso la massa) allora cambierebbero parecchio le cose.Che cos’è che purtroppo cambia le cose e le nostre scelte? Il tempo, la volontà (intesa come cultura,sentimenti e passione…) e il denaro. Purtroppo siamo sempre costretti a scegliere in base a queste 3 variabili (che voi mi potrete contestare ma riassumendo ci troviamo tutto), poi ne possono esistere altre, ma per adesso provate a seguirmi.Se (come oggi) iniziamo a pensare che camminare nel campo di grano rispetto all’autostrada ha degli effetti positivi che fino ad ora non abbiamo considerato e che possono tradursi in vantaggi per noi (e per gli altri) per una o più di queste variabili, allora credo che il cambiamento si possa innescare. E’vero che il cambiamento siamo noi e non bisogna aspettarsi niente e non bisogna scaricare la responsabilità su altri o sui massimi sistemi, però credo che per innescare un miglioramento (inteso in senso lato) bisogna innescarlo tramite la propria persona su questi massimi sistemi per la visibilità e portata positiva che ne potrebbe scaturire.Lo squallore e le realtà che coesistono potrebbero essere integrate da questa nuova situazione, la quale potrebbe modificarle parzialmente e creare così un cambiamento.
Se parliamo del dilemma dello sviluppo e dell’ambiente, come alcuni di voi ben sanno, la crescita spesso (e soprattutto nei paesi occidentali negli ultimi 20 anni) ha avuto effetti anche negativi sullo sviluppo.Se cresce il PIL non è detto che aumenti lo sviluppo. Se sono in fila in tangenziale a Milano con la macchina, il PIL aumenta perché consumo benzina e gomme ecc. ma sicuramente non aumenta il benessere (e quindi lo sviluppo) mio e di quelli in fila con me.Ma questa situazione viene conteggiata positivamente.Così come se peggio,faccio un incidente e vado in ospedale: la manutenzione della macchina, l’assicurazione cresce,le spese mediche aumentano…sono esempi stupidi per farci capire che gli indicatori sintetizzano in modo non completo i costi e i benefici delle diverse realtà e situazioni.I paesi in via di sviluppo stanno aumentando il loro benessere, ma arriveranno (ai nostri anni 70) ad un punto in cui spero e credo (dato il nostro esempio negativo che non seguiranno) non vorranno proseguire andando a diminuire la felicità dei cittadini che vi abitano e dello sviluppo (inquinamento,aspettativa di vita, grado d’istruzione).Il dilemma è grande ma sono convinto,dato che sono ottimista, che non imploderemo tanto presto, anche se siamo la prima generazione che sta peggio di quella precedente(sotto certi punti di vista).Io sono entusiasta,perché sotto quello che noi e i media ci diciamo c’è una rete di piccole azioni e realtà che va nella direzione opposta.100 anni prima che cadesse l’impero Romano iniziarono a nascere le Pievi Feudali (che per 1000 anni furono esempio positivo di sviluppo,almeno per gli standard dell’epoca) e quando l’impero crollò,il sistema umanità non collassò ma trovò un nuovo riferimento nelle Pievi, che avevano degli indicatori e standard diversi da quelli dell'Impero;stili di vita e modelli di consumo e culturali completamente diversi.Alcune Pievi oggi sono già sorte..una moltitidine inarrestabile di movimenti e persone assumerà sempre più importanza fino a diventare una nuova realtà che influenzerà le altre coesistendo con loro, senza eliminarle, ma migliorandole.

Jaco con Violenza verbale

venerdì

Charcot-Marie-Tooth Disease

Sono le 14.08, tredici Novembre duemila e nove. E' Venerdì. Ma forse no. Dopo tutto non ne vedo l'importanza. Papà Goriot [I diritti sono riservati, come da legge sul diritto d'Autore n. 518] è morto come Balzac come ogni altro Autore. Fuori sembra piovere. Il mondo sembra non celebrare/ricordare nulla.
Ora. Il primo Luglio 1985 il canale televisivo 'Home Shopping Network' veniva per la prima volta trasmesso nell'etere nazionale americano, a seguito di una breve parentesi gestazionale di livello statale, nella fattispecie Florida, mettendo le basi per una felice storia di business capitalistico a stelleestriscie ed una significativa, sebbene silenziosa, mutazione socioculturale destinata ad avere una ripercussione globale nell'arco temporale tipicamente ristretto di ogni iniziativa commerciale propria degli anni 90' del XX secolo Dominus Christi. 'HSN' [marchio registrato] è l'acronimo comunemente usato per indicare tale canale televisivo (240 Satellitare). Al momento presente il titolo HSN, quotato nel mercato borsistico NADAQ nordamericano, ottiene un valore di $16.57 per azione, segnando un significativo aumento del 6.77% nell'ultima seduta di contrattazione. Allo stesso tempo 'HSN' rimane ad indicare la sintomatologia medica 'Hereditary Sensory Neuropathy', i quali sintomi principali consistono in una progressiva perdita (con diversi livelli di severità, in accordo con la sottotipologia connessa) della sensibilità nei terminali nervosi periferici. Nonostante ciò, non sembra esserci nessun collegamento apparente tra le due cose.
Pochi mesi dopo quel 1 Luglio 1985, moriva Italo Calvino. E nascevo io.
Lasciamo da parte ogni analisi sociologica sull'ambiente in cui mi sono formato come individuo, nel quale ho conosciuto l'unico tipo di vita possibile, oppure come tale scenario socio-culturale mi possa avere influenzato irrimediabilmente nelle mie scelte passatepresentifuture che poi altro non è che quella musicale espressione latina corrispondente a forma mentis. E' tutto già nei libri di sociologia in internet sui giornali alla tv. Ciò che vorrei invece farvi presente è la mia totale assenza di entusiasmo, di quella spinta emozionale tipicamente obamiana (due anni fa sarebbe esistita tale spinta emozionale? sarebbe stata differente da obamiana? avrebbe potuto esserelo?) che porta ad una euforia attiva nel credere, nel volere provare, nel sentirsi pronti. Ecco, io non sento questo stato di sentimenti apparentemente preparatorio ad un rimarchevole cambiamento. Penso di non voler cambiare nulla. Penso la speranza sia ontologicamente scomparsa. E sono felice di questo.
La realtà soggettiva che vorrei comunicare è che a me piace lo squallore in cui esisto. Non credo sia squallore. Non credo sia necessario ragionare nella forma binaria di Peggio/Meglio oppure Sbagliato/Giusto. Io non credo. Io mi sforzo di essere consapevole. Non esiste un inizio ne' una fine. Tutto è sovrapposto, simulazione, temporalità continua, dentro labirinti di specchi simili a quelli di Barth o a sentieri biforcuti come quelli di Borges. Più realtà coesistono. Se più realtà coesistono quale è il senso di voler cambiare la realtà. Se più realtà coesistono mischiate con elementi di simulazione sempre più reali siamo ancora in tempo per pronunciare la parola realtà innocentemente. Nei suoi albori di onde magnetiche la HSN vendeva apribarattoli per $9.95. Possiamo provare a creare un nuovo vocabolario, nuove idee, nuove azioni, una nuova realtà. Ma il nuovo non è più possibile.

EH2

giovedì

coltelli & cappelli

Sono le sette del mattino, giovedì dodici novembre duemilanove. Venti anni, due giorni e qualche ora fa è caduto il muro di Berlino. Il mondo ricorda quell'evento. Il venticinque dicembre il mondo ricorda la nascita di Gesù bambino. Il ventisette gennaio la scoperta di Auschwitz. Apparentemente, il mondo sa cosa ricordare e non si dimentica di farlo. Secondo alcuni quello che ho chiamato mondo sono le persone, secondo altri sono gli stati, secondo altri sono le multinazionali. Alcuni hanno già detto che il mondo siamo noi. Altri hanno già detto che, in realtà, ogni definizione di mondo è per qualcuno e per qualche scopo. Di fronte a questi 'detto' certi hanno concluso che, dei due, o l'uomo o il dire sono di troppo. In post scriptum qualcuno ha aggiunto che anche questo era già stato detto. Di fronte a ciò, mi sento come detto da qualcuno. Vorrei aggiungere qualcosa: naturalmente già detto, ma vale la pena sottolinearlo. Mi sento insoddisfatto. Non proverò certo a fornirne le ragioni perché sull'argomento si sono sprecate montagne di parole. Non proverò a capire cosa dovrei farci perché le biblioteche sono piene di idee a riguardo. Mi chiederei come ci si sente se non sapessi che c'è chi lo ha spiegato meglio. A questo punto posso citare quelli che hanno affermato: sono bloccato.

Accade una cosa strana. Mi alzo e vado in bagno. Quando torno, come i libri di scienza illustrano, mi sento meglio. Ma faccio di più. Alzo la temperatura del termosifone. Immagino addirittura che tra poco sarà ora di colazione e che, tornando dalla cucina con una tazza di caffè apprezzerò lo sciogliersi degli zuccheri nel sangue e il loro effetto stimolante sulle cellule del cervello. Quali alternative esistono, dopotutto? Le prescrizioni in materia non mancano, ma, come hanno detto, sembra difficile seguire idee che vanno contro il proprio stomaco. A questo punto qualcosa è cambiato. Alzatomi per andare al bagno, sono tornato materialista.

Come detto dagli scienziati, esistono bisogni dai quali non possiamo prescindere se vogliamo sopravvivere. Questo però non vuol dire che i bisogni significhino qualcosa. Qualcuno, a riguardo, ha detto che l’esistenza precede l’essenza. Significa che non c’è nulla che nasca con attaccato l’etichetta in cui è ne prescritto l’uso. I bisogni sono ciò che le persone ne fanno. I nostri bisogni diventano ciò che impariamo a farli essere. Da un lato esiste il mondo: nudo, senza parole, senza significati, le cose per come esistono indipendente dal vocabolario che usiamo per descriverle. Dall’altro esiste la realtà sociale: il mondo vestito di parole, carico di significati, il vocabolario attraverso cui leggiamo le cose che ci circondano. Esiste un oceano si parole su come i due mondi interagiscano e su come sia possibile la loro esistenza. Per adesso non mi interessa parlare di queste posizioni, mi interessa solo l’idea che sta alla base di tutto: non è detto che la realtà che vediamo sia necessariamente così. Potrebbe anche non esserlo. Quella che vediamo è una realtà non necessaria, nessuno le ha imposto quei significati per sempre. Esiste il coltello, quello esterno, indipendente da noi ed esistono i suoi significati, a partire dall’immagine con cui entra nella nostra mente: tagliente, strumento per tagliare la carne, arma per uccidere. Il coltello potrebbe anche essere un nuovo tipo di cappello, se qualche etichetta lo lanciasse come moda. Pensare al coltello è un esempio per agganciare il centro dell’argomento. La nostra realtà è talmente quotidiana, prevedibile, automatica, da farci dimenticare che siamo noi a crearla. Potrebbe anche essere diversa. Ne potrebbero esistere infinite altre. Ciò non significa che basta mettersi un coltello in testa per farlo diventare un copricapo. I significati sono radicati tra le persone. Cambiarli non è facile. I significati sono come un sentiero in un campo di erba alta. Al punto zero c’è solo erba alta. Poi arriva una prima persona che vuole attraversare il campo, allora cerca il modo migliore per farlo. Arranca e si graffia con le spine, ma alla fine arriva dall’altra parte. Poi arriva una seconda persona che deve fare lo stesso. Vede che c’è già una traccia e prova a seguirla. Magari cambia qualche tratto del sentiero, si graffia un po’ meno e arriva dall’altra parte. Poi ne arriva una terza, una quarta e così via. Dopo duemila anni quel sentiero è diventato un’autostrada. Mettersi un coltello in testa al giorno d’oggi è come voler camminare sulle mani da Milano a Bologna passando attraverso i campi di granoturco. E’ praticamente impossibile che qualcuno ti segua. A meno che l’autostrada non inizi a essere un percorso problematico. Allora le persone inizieranno a uscire dall’autostrada e cercheranno nuove strade, come quando c’è la colonna.

Io sono insoddisfatto. Immagino che ci siano dei motivi esistenziali in ciò, ma non nego che la realtà in cui vivo, con i significati che ha, contribuisca a tale insoddisfazione. Non vuol dire che il sistema fa schifo ed è da buttare. Non vuol dire che voglio mettermi a camminare sulle mani. Vuol dire che l’autostrada in cui ci siamo immessi sembra mostrare dei problemi. I problemi sono la contraddittorietà, l’incoerenza dei significati. Uno sopra tutti: l’ambiente. Lo stile di vita che abbiamo, noi, oggi, non è sostenibile dalla popolazione mondiale. Non è sostenibile per l’ambiente perché significa distruzione. Iniziamo a sospettare che presto non sarà più sostenibile neanche per noi. I significati contraddittori sono nei discorsi sull’ambiente. Gli stati ad economia avanzata ammettono il diritto allo sviluppo e all’eguaglianza su scala globale, ma, in vista del summit sul clima di Copenhagen, propongono di contenere i processi di industrializzazione delle economie emergenti perché aumentano i gas serra. Le economie emergenti cercano di imitare il modello di sviluppo occidentale, ma ciò include anche gli aspetti negativi di quel modello: l’inquinamento. Noi siamo tra i maggiori produttori mondiali di gas serra. Per sostenere le nostre economie siamo costretti a inquinare. Gli altri, perché non arrivino a inquinare come noi devono frenare l’economia. Si dice che tutti gli stati devono contribuire alla lotta per ridurre l’inquinamento, ma ridurre le emissioni con proporzioni simili permette agli stati avanzati di aggiudicarsi la fetta più grande di inquinamento, significa rivendicare il diritto ad inquinare più degli altri. E’ questa una forma di eguaglianza o di uguale accesso allo sviluppo per tutti?

Ho l’impressione che molte altre persone siano insoddisfatte. Il problema è che abbiamo una forte dipendenza da percorso. Siamo seduti nelle nostre macchine immesse in una colonna che procede sempre più lentamente. Vale la pena uscire dall’autostrada? Non si può dire. Che garanzie danno gli altri percorsi? Dopotutto l’autostrada ci ha portato fino a qui, ci nutre, ci ha dato i diritti che abbiamo oggi, ci permette di andare dove vogliamo. Non sono cose da poco. Però ci sono dei problemi. Non sono problemi creati da qualche cattivo che governa il mondo per farci essere tristi, perché lui gode nel vederci soffrire. Non è colpa delle multinazionali. Non è colpa di Berlusconi. Non più di quanto non sia colpa nostra. Qualcuno ha detto che esistono tre tipi di violenza. C’è la violenza diretta, quella che vedono tutti. C’è la violenza strutturale, cioè l’insieme di condizioni che portano alla violenza diretta. Poi c’è la violenza culturale che è quella che porta le persone a considerare normale la violenza diretta e a legittimare quella strutturale. Siamo tutti parte di un'unica realtà e dei suoi problemi: noi, Berlusconi e le multinazionali. Si dirà che la differenza è la volontarietà. C’è chi lo fa apposta (Berlusconi e le multinazionali) e chi invece non lo sapeva o è costretto. Fa qualche differenza? L’uomo qualunque (ignaro o costretto) può rivendicare una coscienza più pulita solo perché autorizza qualcuno a fare il lavoro sporco per lui?

La mia proposta non è di intraprendere grandi azioni di rivolta. Io non so nulla di questo mondo. L’unica cosa di cui sono abbastanza certo è che non necessariamente le cose devono andare come vanno. Potrebbero andare meglio. Potrebbero andare peggio. Non ci è dato saperlo. Questo significa che non credo né nell’ottimismo né nel pessimismo che dicono che le cose andranno meglio o peggio. Però ho speranza che l’uomo possa migliorare. Migliorare non implica nulla di assoluto, è un termine relativo. Vuol dire che la ferita che ieri faceva male oggi fa un po’ meno male. Da questo punto di vista tutti hanno un po’ di speranza, voglia di vivere anche domani perché potrebbe essere una giornata migliore. Io conto sulla possibilità dell’uomo di influenzare quel piccolo miglioramento. Come? Qualcuno ha detto si deve essere il cambiamento che si vuole vedere nel mondo. Vuol dire che per cambiare la realtà dobbiamo partire da noi stessi. Vuole anche dire che, in fondo, non esiste differenza tra mezzi e fine. Ogni mezzo è un fine in se stesso. Noi, i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre azioni siamo il mezzo ma siamo anche il fine. Noi possiamo essere il più grande cambiamento per noi stessi. Cambiando noi stessi possiamo cambiare la realtà in cui viviamo per farla diventare un mezzo e un fine. Di per sé non è complicato, è un cambiamento interno che si riflette nella realtà. Noi, oggi, siamo la realtà di cui sentiamo insoddisfazione. Non è l’unica. Non siamo unici. La realtà è quella che vediamo attraverso il filtro dei significati che viviamo. Ne esistono infinite altre che vanno oltre i significati attuali e che si trovano nel mondo nudo in cui nuovi significati sono da costruire. I significati della nostra realtà hanno mostrato la loro limitatezza; noi possiamo creare un nuovo vocabolario, nuove idee, nuove azioni, una nuova realtà. Non è difficile. Possiamo farlo, basta iniziare. Possiamo iniziare da qui.

martedì

Dio versus Satana

Buonasera.
Buonasera a tutti. Buonasera.
Signori e signore, buonasera.
Mi fa piacere sapere che ci sono personaggi noti tra il pubblico.
Vorrei avervi qui, accanto a me, ma sarà per un'altra volta. Per adesso sarete voi ad avermi accanto, come voce narrante della serata. Cos'è una voce narrante? Ma certo, sono io. Una voce narrante è quella che, esattamente ora, sta pronunciando le parole che risuonano nella vostra mente attraverso l'artificio delle lettere che vedete impresse sullo schermo. La voce narrante siamo noi, direte. Non proprio. La strana combinazione di suoni inudibili che sta prendendo vita in questo momento è qualcosa che va oltre voi. Qualcosa che vi assomiglia e che, contemporaneamente, ha sostanza d'altro. Siete voi che pensate con le mie parole. E' per questo che vi sono accanto. L'aspetto più divertente - e, francamente, anche il più inquietante- di tutta questa vicenda è che, in quanto voce narrante, io non esisto senza di voi. Non vorrei avervi spaventato con questi giri di parole. Affermare che io non esisto, che assurdità! Come faccio a non esistere se adesso sono qui e voi mi sentite, le mie parole sono anche le vostre e il mio pensiero è già sedimentato nelle segrete del vostro ragionamento. Forse qualcuno può dirlo perché ancora non mi vede, ma qual'è il problema! E' chiaro che voi non mi potete vedere, perché ancora io non sono che una voce: la voce narrante, appunto. E dato che si tratta del mio nome, di ciò che mi caratterizza di fronte a voi, dello strumento con cui potrete chiamarmi con gli estranei per spiegar loro chi sono io, dato tutto ciò, sono d'obbligo le maiuscole: io sono la Voce Narrante.
Già mi definisco come nome proprio e nessuno di voi mi ha ancora visto, perdonatemi. In maniera forse scortese sono rimasto nel buio fino ad ora, nel buio assoluto. In effetti non poteva esserci la luce se c'era solo la voce ed è chiaro che nessuno poteva immaginare delle sagome nel buio, perché nessuno ve ne aveva parlato. Cerchiamo di rimediare.
Ad un tratto qualcosa è cambiato. Il buio non è più così buio, il nero non così nero. Si direbbe che tenda verso il blu. Un blu notte molto scuro che, a poco a poco, si schiarisce. Come d'estate, quando i primi passeri iniziano a cantare e tutti hanno la sensazione che la notte sia finita. Quel tipo di blu. Ad ogni modo, vorrei puntualizzare che non siamo in estate e che non c'è nessun canto di passeri, si tratta di immagini momentanee che ho richiamato per rendervi consapevoli del tipo di chiarore che state vivendo adesso mentre ascoltate me, Voce Narrante. Concentratevi sul chiarore.
Siamo dunque arrivati a coinvolgere due sensi, l'udito e la vista. Diciamo che, per adesso, l'udito è quello più coinvolto. Si tratta di una scelta strategica: dato che la vostra capacità figurativa è ancora molto ridotta è meglio coinvolgere pochi elementi per volta. Non prendetela come un'offesa, è solo che ho deciso di manifestarmi in questo modo. E' più semplice e il vantaggio è che adesso mi state vedendo: io sono quel chiarore, quel blu mattina.
A questo punto si apre un primo problema. Io non sono più solo una voce narrante, ma sono anche qualche esperienza visiva che vi appare e vi parla allo stesso tempo: io sono due percezioni in contemporanea, sono un'Alba Parlante. Se suona altisonante perdonatemi, non è mia intenzione creare disagio. La scelta è piuttosto legata all'idea che questo nome rimanga impresso e che, in questo modo, passeremo più tempo insieme.Veniamo dunque a noi. Perché ho deciso di rendermi presente alle vostre menti sotto forma di Alba Parlante?
- Già, perché hai deciso di farlo maledetto figlio di puttana?
- Ti prego, non ora Chuck.
- Non ora, non ora, non ora, non è mai l'ora per te, fottuta Alba Parlante, adesso dicci, chi cazzo sei, che cazzo vuoi dalle nostre merdose vite, perché cazzo mai dovremmo perdere il nostro tempo ad ascoltare te, testa di cazzo che puzza di merda?
- Tutto ad un tratto ti credi spiritoso, Chuck.
Improvvisamente si sente crescere come musica di sottofondo "I will survive" di Gloria Gaynor. Alba Parlante si trova di fronte a Chuck per l'ennesima volta ed entrambi sanno che probabilmente sarà l'ultima, come ogni volta.
- Chuck D, il rapper dei Public Enemy!
- Da solo non potrò mai farcela, ho bisogno di trasformarmi: Cambio del cognome!
Katazzaaaaaaan
Scompare Chuck D e appare Chuck Norris.
- Chuck Norris, non ho mai potuto vedere i tuoi film.
- Alba Parlante, software progettato per uccidere, non avrai scampo questa volta.
- Maledetto figlio di puttana.
Alba Parlante si scaglia verso Chuck Norris che con un salto la schiva, poi sull' "Hey Hey" della canzone le assesta una gomitata tra il chiarore più chiaro della mattina e i residui di buio della notte, mandandola al tappeto. Alba Parlante allora fa per girarsi ed estrarre la pistola dalla fondina segreta, ma Chuck gliela allontana con un calcio e in un batter d'occhio le ha già messo le manette ai polsi.
- Alba Parlante, sei in arresto per tentato raggiro della pubblica opinione, tentato omicidio dello sceriffo più invincibile del Texas e per insulto aggravato alla madre dello sceriffo.
- Aaaaaghhh. Mi hai sconfitto.
- E fu così che venne arrestata Alba Parlante.
- Ma non era questo quello che volevi dire, Chuck.
- Ah, Già. In realtà volevo dire che su "Chi" di questo mese potete trovare il fotoreportage della storia d'amore tra Al Pacino e Simona Ventura (i nomi sono di pura fantasia per mascherare gli originali). Lei è la più bella showgirl italiana, lui il più desiderato divo di Holliwood. Se siete femmine potete vivere il sogno di Elisabetta Canalis, se siete maschi potete tintillarvi pensando a dove mettereste le mani se foste Brad Pitt. Stasera stavo parlando con la mia coscienza in affitto e le ho detto che dopotutto intendo fare come George Clooney ed arrivare a cinquant'anni senza
essermi sposato e che dopotutto se entrambi sono d'accordo non è squallido. Lei mi ha risposto che le dispiaceva per me.


Personaggio 01

sabato

Noche Buena


SB: Mi posso permettere? Tu devi fare sesso da sola...Devi toccarti con una certa frequenza
.

martedì

C'è una luce che non si spegne mai

Non avrei dovuto aspettare così tanto tempo, per diventare un essere umano. Meglio tardi che mai,però. Questo è sicuro. La verità è che mi sembra una gran rottura tutta 'sta storia; però è anche vero che siamo molto più noiosi adesso di quando non ne parlavamo.Il fatto è che per noi questo tipo di argomento non è una novità, e allora è meno noiosa di quello che sembra. La lascerò andare avanti ancora per un po'. Ancora un pochettino. Voglio godermela tutta, e voglio godermela per tanto tempo. Lo so, me lo sento.

Jaco

mercoledì

Adagio Assai.

Ci sono delle cose che proprio non riesco a capire. Mi sfuggono, come ombre si nascondono in angoli bui della mia mente.
Vorrei poterti aiutare. Vorrei spiegarti. Ma come sai non mi è possibile. Non è così che vanno le cose, purtroppo.
Ma ci deve essere un sollievo, un qualche tipo di razionalità. Non ti pare.
Certe volte la ragione è troppo debole. Pensa ai tuoi sogni.
Non capisco. Spiegati meglio.
Nei tuoi sogni una luce antipoidale eppure parallela ricopre le connessioni della tua mente. I tuoi sogni emergono così in una realtà (per così dire) irreale, in una condizione celebrale solitamente inesplorata, regretta. Ti ritrovi in un mondo privo di riferimenti, privo di logica. La ragione svanisce. Esattamente come il Concerto per pianoforte in G maggiore di Ravel spiega.
Vuoi dire che alcuni aspetti della nostra vita subiscono lo stesso processo dei nostri sogni, trovandosi dentro un luogo depurato di razionalità?
Forse, in un certo senso. Ma fino a che punto la tua vita può avere un senso, se ciò che ti protegge è una mucca, in silenzio seduta al tuo fianco ad attendere.
Non confondere la situazione. Tu sei qui a proteggermi perchè io l'ho deciso, perchè sentivo di non essere al sicuro con me stesso. Le chiavi legate al tuo robusto collo sono ciò che mi toglie la liberta, ma allo stesso tempo rappresentano la libertà stessa. Così come le catene che mi legano, immobile al tuo fianco. Cosa succede, cosa è quello sguardo?
Nulla. Credo che presto inizierà a piovere. Ad ogni modo, una mucca che ti protegge, seduta al tuo fianco in un mondo surreale, è un sintomo di illogicità. Questa valle senza fine nella quale ci troviamo ad aspettare, priva di aria, di tempo, è la tua mente. Ma è puranche la tua vita.
Forse tutto porta a Sisifo, alla sua pietra, alla infinita ripetizione di un dolore, nella consapevolezza di esserne prigioniero. Forse sperare in un qualcosa che attraversi lo spazio di questi due mondi, che scivoli lento nel pozzo buio sino a comparire in questo nostro luogo, per poi senza emozione sfilarti le chiavi dal collo e finalmente privarmi della libertà, forse tutto questo non può accadere. E' l'illusione di Sisifo, la sua gioia impura di quando scende leggero dalla montagna, per poi riprendere la pietra, e nuovamente farla rotolare sino alla cima. Perchè allora attendere. Mucca, perchè allora attendere?
E' la tua mente a volerlo. Io sono solo un guardiano. Provo affetto nei tuoi confronti, e il tempo che passiamo insieme è allegro. Ma ciò non toglie che io sia soltanto un guardiano. E' il mio compito.
Potrebbe essere una attesa inutile. Potrebbe essere solo un modo per nascondersi. Lo sai.
Lo so. E' vero.
Eppure non ti preoccupi.
Come ti ho detto, sono soltanto un guardiano della tua mente. Niente più.
Avevi ragione, ho sentito delle gocce di pioggia. Non capisco proprio come tu faccia.
.
.
EH2

lunedì

Creazione di mitologia cagnolatica

Eravamo circa in Fleet Street, quando il Violento cominciò ad urlare. Disse qualcosa tipo: “Questo cazzo di canale non ha i depuratori.” Poi raccolse alcuni sampietrini dalla strada dissestata e prese a lanciarli contro la superficie verdognola dell’acqua. Il canale cercava di ripararsi con piccole onde irregolari, ma la sua pelle era bucata da una raffica di sassi. “Pezzo di merda” Gli urlava contro. “Maledetto stronzo inquinato!”
Quando notai un grosso pezzo di marciapiede crepato, facilmente sollevabile, m’illusi per un attimo che lui non lo avesse visto. “Dai, Tommi, entriamo in questo bar.” Dissi timidamente. Ma il dolore del pugno che ricevetti sul femore mi fece schizzare a terra. In un attimo mi era sopra e mi stava prendendo a calci: “Questi sono per il frontino che mi hai fatto due anni fa! E questi per le battute sulla Greta che è andata in vacanza con Capelli!” Sentivo che stava cercando di non uccidermi; si tratteneva, non usava tutta la forza, voleva solo farmi un po’ male.
Quando smisi di dimenarmi e reclinai la testa a terra in segno di resa, lui riprese a dedicarsi al canale. Vide, com’era ovvio, il pezzo di marciapiede. Lo raccolse. Lo sollevò a due mani sopra la testa e si avvicinò al ponticello, borbottando: “Ti insegno io a rispettare l’ambiente.” Barcollò sulle assi di legno e si fermò in posizione plastica di fronte al canale. Era la scena finale del duello. Urlò: “L’ambienteeeeeeeee!” e scagliò il pezzo di marciapiede giusto nel ventre del flutto, uccidendolo.
Le ragazze che erano con noi non si erano accorte di niente. Gli altri le stavano intrattenendo, dall’altra parte del canale, in Mohamed Street, con non so quali discorsi. Quando il Violento uscì dal bar con le braccia stipate di bicchieri di birra, e glieli porse, una di loro disse: “Graaazie Tommi.”
“Li ho presi dal bancone.” Sorrise lui. “La gente abbandona le birre, ma noi non le lasceremo diventare calde.”
Si chiamava Tina; lei e le sue amiche le avevano conosciute gli altri, giù a Bretton, non so come. Guardò il Violento. Era piena d’ammirazione nei confronti di quel ragazzone italiano che, oltre ad aver offerto birra a lei e alle sue amiche, faceva anche il modesto. “Dai, Tommi, non vorrai farmi credere che le hai davvero prese dal bancone.”
“Certo.” Borbottò lui. “Non vedi che sono tutte cominciate?”
No, non l’aveva visto. Quando si accorse che nessun bicchiere di birra era colmo fino all’orlo, capì che era davvero così, e si mise ad urlare: “Ma Tooommy! Ti sembraaa? Ci fai bere da dei bicchieri spooorchi?”
Io mi ero appena alzato. Cercavo di raccogliere i pezzi di polmoni dal marciapiede, ma quando la vidi, dall’altra parte del canale, scaldarsi in quel modo isterico, mi preparai al peggio. Chiusi gli occhi giusto mentre il suo corpo esile volava al di là della balaustra. Non feci in tempo a tapparmi le orecchie: sentii il grido, il fragoroso splash (ptshhhhhhhhhh), e le lamentele disperate di una bocca che iniziava a riempirsi d’acqua. Quando il Violento prese a bombardarla di sassi, facendola affondare, pensai che era meglio così.
Cosa successe dopo? Ricordo torrenti di noccioline rubate dai piattini di un bar e scagliate in occhi e bocche. Un pallone da calcio che colpì in pieno volto un poliziotto, facendo deragliare un treno. Il tentativo boyscoutesco di far attraversa la strada ad una vecchia che si mescolò a una scivolata a sei tacchetti sulle strisce pedonali. Una pisciata in faccia ad un monumento, con conseguente multa e denuncia alla corte marziale. Ricordo tante storie vissute insieme. Ricordo una voce, come la sirena notturna di una città in guerra, ululare distorta quella parola: “Sfigaaati.”
Al termine della giornata, alla vigilia del suo ventiquattresimo compleanno, ricordo che chiesi a Tommi come si sentisse.
“Sono cresciuto.” Rispose lui, sinceramente. Indossava un abito scuro e una cravatta rossa. Aveva appena finito di lavorare. “Tutte queste storie fanno parte del passato.”
“E i venti Euro che mi devi? E tutte le cose che hai fatto? E Tina?”
“Chi è?”
“La ragazza affogata nel canale a Fleet Strert.”
Mi accartocciai su me stesso, stingendomi il ventre dolorante. Un altro pugno, stavolta sulla fronte, mi stese definitivamente e Tommy, sorridendo da vecchio amico, mi disse: “Emu, sono tutti stereotipi.”

Killer Toad
(tutti i nomi e i fatti narrati sono di pura fantasia)

A Christmas Tale

Era venerdì, credo, stavo tornando a casa.
Ero appena arrivato alla stazione di Reggio con un treno intasato di materia umana e cartacea. Materiale informativo e fotografie di macchine occupavano gli spazi vuoti tra gente che tornava dal Motor Show carica di depliant. Depliant dappertutto, forse più che le persone. Depliant di macchine che buona parte dei proprietari di depliant non avrebbe mai comprato. O -peggio- se le avessero comprate, depliant di come questi proprietari avrebbe infestato la vita di passeggeri ignari dicendo cose del tipo "sì, ma per favore, potremmo mettere la pizza nel bagagliaio, non vorrei che la mozzarella mi colasse sui sedili". Oppure del tipo "aspetta, non facciamolo in macchina, non posso spermare sul cuoio".
Avevo preso ad odiare tutta questa gente, senza ancora pensare ai sedili, alla mozzarella e allo sperma già a Bologna, quando avevo realizzato che presto la loro esistenza sarebbe stata d'intralcio alla mia. Ci avevo pensato vedendo arrivare il treno.
Sull'interregionale delle 17.30 in genere non ci sono posti a sedere. In genere. Nell'occasione la lungimiranza aveva anche previsto che in piedi si sarebbe stati stretti e che ci sarebbe stato caldo, anormalmente caldo. Tuttavia non era arrivata al livello di macchinosità tale da sospettare che ogni tanto sarebbero passati alcuni di questi gonzi con le borsine piene di sperma convinti che nella carrozza successiva avrebbero trovato l'oasi dei loro sogni con poltrone di cuoio e donnine del motor show a fare le inservienti al cesso.
In ogni caso, avevo estorto un posto d'eccezione: in fondo alla carrozza, vicino alla toilette, senza inservienti, nel disimpegno che sta tra il salotto e la porta d'uscita. Intorno a me le persone dentro ai cappotti: natanti col culo sprofondato nelle ciambelle salvagente di un parco acquatico, precisamente nell'attrazione che alterna parti a scivolo con vasche di raccolta. Intasati, quindi incazzati. Intasati perchè quelli davanti stanno facendo i cretini con una ragazza e non scendono alla vasca di sotto. Incazzati perchè non c'è mai un bagnino quando serve e nemmeno il controllore, ci sono solo depliant. Per fortuna che ci sono i depliant o la giornata sarebbe stata un incubo.
A dire il vero la categoria Motor Show raccoglieva solo il cinquanta per cento della popolazione in eccesso. L'altra metà erano studenti e lavoratori pendolari sommati a una rosa di persone di mezza età evidentemente non pendolari.
La realtà mostra che i pendolari si considerano superiori ai non pendolari, non fosse altro che dal punto di vista dell'esperienza. Si può notare quest'attitudine facendo caso ai commenti relativi alla norma dei disagi: in genere il pendolare si sente in diritto di lamentarsi con voce più alta e non vede l'ora di mostrare la sua conoscenza empirica al semplice viaggiatore. Questi, sentendosi un pesce fuor d'acqua, sentendo di aggravare la condizione degli stoici che affrontano le ferrovie italiane per indigenza o per il bene comune, reagisce annuendo docilmente o buttandola sulle colpe della politica.
Trovando terreno fertile nel secondo tipo di atteggiamento, il pendolare -che di solito è persona informata- coglie l'occasione per citare qualche pagina di cifre sugli sprechi italiani e, in questo modo, i due arrivano a ricomporre il disagio iniziale parlando di quanto siano peggio i politici. La cattiva gestione della cosa pubblica ha il non trascurabile effetto di garantire la pace sociale dei treni. Tra quelli che invece avevano scelto di annuire docilmente, c'erano per lo più le mogli di mezz'età dei tizi che stavano sfogando, nei discorsi sul malaffare italiano, la tensione accumulata durante le ore trascorse in giro per negozi.
Mi ero messo a trarre queste conclusioni guardando la signora che stava di fronte a me, una bellissima signora che non aveva depliant ma che, in compenso, portava cappotto e cuffia color delle mutande che si mettono dopo il bagno del 24 dicembre. L'effetto completo però, forse per le treccine bionde, era più del tipo "cappuccetto rosso" piuttosto che "piccolo aiutante di babbo natale pornografo". Non riuscivo a spiegarmi come mai una come lei fosse in treno a togliere spazio vitale a me e non a succhiare cazzi a centottanta all'ora in autostrada. Penso che i gonzi del motor show si stessero chiedendo la stessa cosa, sprofondati in un conflitto interiore che opponeva la loro fantasia alla coscienza sporca dei sedili di cuoio.
Oltre alla perversione maschile, alla carta stampata rindondante e a nient'altro, alcune esponenti di spicco del gruppo 'christmas shopping' tenevano tra le mani campioni rigorosamente gratuiti contenenti ettolitri di liquido corrosivo e acidi vari. Altre, trascinavano i mariti gonfiabili attraverso la sfilata delle carrozze. Nonostante ciò, lo facevano trasmettendo una parvenza di motivazione che le rendeva meno irritanti dei gonzi quando si appoggiavano su di me per passare: era evidente che a loro fosse stato promesso un posto a cui ambire.
A questo punto stavo considerando con lugubre compiacimento la maschera di cera di due che avevano appena scoperto che la prima classe era stata degradata in seconda, quando mi accorsi che la rassegnazione e la fila compatta di persone lungo la carrozza avrebbero impedito loro di procedere. Ciò significava che ci saremmo dovuti stringere e lasciare che anche loro accedessero alla nostra preziosa riserva di ossigeno in nome di qualcosa chiamato "diritti umani". Per chi non lo sapesse, il rispetto dei diritti umani si misura in treno. A quel punto, in mezzo ad una calca di persone affascinate dall'uomo che nasce libero e con qualità inalienabili, il mio senso del macabro era già ritornato odio.
Per di più la bellissima signora con il completo natalizio continuava a non guardarmi. Non lo avrebbe fatto per tutto il tempo del viaggio: il ritardo più quaranta minuti di percorrenza.
La stazione di Reggio era qualche luce gialla e una scritta bianca inghiottite dal buio. Voglio dire, il buio era una presenza concreta: si materializzava, ma evaporava subito appena ci entravate, lasciandovi addosso, in faccia, sull'ombrello, vapore acqueo ghiacciato, un misto di pioggia, nevischio e di quella materia indefinibile che sta nelle stazioni, che ha lo stesso odore dappertutto e che si appiccica ai vestiti dopo una sola andata. Neanche la voce metallica degli annunci ne usciva uguale a se stessa. L'uomo robot, quello che sprigiona razionalità e testosterone semplicemente annunciando il ritardo del treno, suonava un misero frocetto tremante. A quel punto non restava che sollevare la valigia e scendere le scale del sottopassaggio. Stavo tornando a casa.

Riemergo nel piazzale dietro alla stazione. Le stesse luci gialle. Gli annunci un po' più lontani. Le linee extraurbane che arrivano a far capolinea. Una sala d'attesa frequentata sempre dalla stessa gente che non consuma mai niente. Un grumo di persone ferme al numero sedici. Vado verso il numero sedici. Sto un po' in disparte, vicino a una panchina. Aspetto.
Ad un certo punto sulla panchina si materializzano un ragazzo e una ragazza, poi un marocchino, che resta in piedi. Il ragazzo e la ragazza prendono a discutere con il marocchino, sembra che ci sia qualcosa che non va.
Cerco di immaginarmi come sarebbe se adesso il ragazzo si alzasse e il marocchino gli tagliasse la gola, voglio dire, come sarebbe per me: forse la moralità pubblica potrebbe prendersela. Dopotutto ho visto che stavano discutendo, sapevo che la ragazza aveva paura, ero al corrente del fatto che quello era un marocchino. Lei direbbe che ho visto sgozzare il suo ragazzo in diretta e che non ho fatto niente per aiutarla, che era responsabilità mia perchè ero il più vicino e sapevo che sarebbe finita così, ma che ho scelto deliberatamente di ignorarli.
Inizio a prendere in considerazione la possibilità di spostarmi verso il grumo e mentalmente ne sento già il calore, ma non posso, non a questo punto, la ragazza mi ha visto, sarebbe un'aggravante perfetta perchè dimostrerebbe che, pur essendomi accorto di quello che stava per accadere -la mattanza- ho scelto di ignorarlo e anzi (qui entra in gioco l'aggravante) me ne sono andato per evitare di dover intervenire di fronte ad una situazione così palese. Decido quindi di restare al mio posto, rassicurato dal fatto che il ragazzo è ancora a sedere, il marocchino è ancora in piedi, nessuno si muove più del necessario, nessuno alza il tono di voce più del necessario, ogni cosa ha trovato i suoi argini di percorrenza.
A questo punto scelgo strategicamente di mettermi il cappuccio.
La scelta strategica è dovuta ad un fatto. Io il marocchino lo conosco. Meglio, mi accorgo di conoscerlo un attimo prima di infilarmi nel cappuccio, sperando che lui non riconosca me, almeno per il momento. Almeno finchè rischia di sgozzare il primo tizio che gli è capitato a braccio. Decido, visto che ne va della mia reputazione sociale, di prestare un minimo di attenzione alla conversazione, senza fare mosse che mi rivelino come un possibile appiglio per qualcuno.
Guardo gli addobbi natalizi dei palazzi che stanno di fronte a me dall'altra parte della stazione, guardo la luce accesa che esce dalle finestre di appartamenti dove ci sono bimbi che aspettano il natale.
Sembra che il marocchino -di cui non ricordo il nome- abbia già incrociato la ragazza da qualche parte e che adesso stia usando il pretesto per abbordarla, nonostante ci sia lì il suo ragazzo. Questi, per orgoglio maschile, deve difendere la sua posizione e sta cercando di far capire al marocchino che l'argomento non fa leva. La ragazza si limita a negare, ma con talmente tanta virtù da rendere dubbia la sua posizione. Il marocchino non cede, anche perchè in mezzo al grumo di gente ci sono altri due che sembrano marocchini che che senz'altro lo conoscono e che senz'altro si sono resi conto meglio di me della situazione, quindi lui non può compromettere non si sa bene cosa. Anche perchè in genere i marocchini non dicono cazzate, semplicemente colorano un po' i fatti.
Ad un tratto, la coppia rinuncia ad aspettare la corriera: si alza e se ne va senza che siano stati consumati spargimenti di sangue. Il marocchino, che probabilmente è obbligato a prendere quella corriera, rinuncia a seguirli e si avvia a salutare i due conoscenti. Nel frattempo mi nota. Stiamo a guardarci per un attimo, poi mi dice socchiudendo gli occhi: "Io ti ho già visto".
"Anche io ti ho già visto" gli rispondo socchiudendo gli occhi.
Ci diamo la mano.
"Ma dov'è che ci siamo già visti?" mi fa.
"Non lo so dov'è che ci siamo visti, secondo me da qualche parte".
"Sì, sì, da qualche parte. Aspetta un attimo."
Prende e va a salutare i due, ma tra loro non deve esserci un legame intimo perchè torna quasi subito da me.
"Allora dove ci siamo visti? Ma tu di dove sei?"
"Castelnovo, e tu invece?"
"Allora prendiamo la stessa corriera. Com'è che ti chiami?"
"Andrea. E tu?"
"Ma tu non compravi il fumo da me qualche anno fa?"
"Può darsi, non mi ricordo. Ma, come hai detto che ti chiami?"
"Ah, no. Tu stavi in compagnia con gente che comprava il fumo da me. O del fumo o della cocaina. Oppure tutti e due. Secondo me vendevo a qualcuno del tuo gruppo, o forse anche a te. Un sacco di roba però." Mi dice. Poi tira su col naso.
"Può darsi."
"Però io ti ho già visto, non hai un viso nuovo."
"Anche io ti ho già visto. Forse al campetto da basket in piscina. Non giocavi a basket? Aspetta, di dove hai detto che sei?"
Nel frattempo arriva la corriera.
"Comunque sì, del fumo, ma tanto, perchè io vendevo tanto fumo. Sei una faccia nota."
"Può darsi. Anche tu comunque sei una faccia nota."
A questo punto camminiamo insieme verso la corriera, ma lui non sale. Io mi siedo più o meno a metà, nel posto vicino al finestrino. Quando stiamo per partire sale anche lui, cammina fino in fondo poi torna da me e mi fa: "posso sedermi qui?"
"Certo" gli dico.
La corriera parte. File di luci multicolori tagliano la notte fuori dal finestrino. Dentro però non è buio: l'autista ha lasciato accesa la luce al neon del corridoio, appena dietro di noi.
"Allora, ma, insomma, dove ci siamo visti?" continua, poi tira su con il naso.
Inizio a credere che la conversazione stia ristagnando.
"Senti non lo so, non so neanche perchè ci conosciamo. In ogni caso, è da un pò che non ci vediamo, come va?"
"Ah, ecco, tu stavi in compagnia con uno di Castelnovo. Uno con i capelli lunghi, aspetta, come si chiamava?"
"Non lo so, può darsi, ma anche tu sei di Castelnovo?"
"Maikol, ecco, mi sembra Maikol. No? Non si chiamava Maikol?"
"Sì, conosco qualche Maikol, ma non credo che sia.."
"E adesso ti serve del fumo? Della cocaina? Quello che vuoi. Mi dai un colpo di telefono e ti porto tutto quello che ti serve."
"Oh, grazie. Sai, però, ho smesso, ultimamente."
"Ah. E come mai?"
"Mah, l'università, lo studio."
"Comunque io . Se conosci qualcuno che ne vuole, dagli il mio numero."
"Ah. E, quindi, così, adesso, vendi fumo?"
"No, no, no. Adesso ho smesso. Sono fuori da una settimana. Ero al Regina Coeli, sezione Alta Sicurezza. Mi avevano messo nell'AS. Io con la gente normale non ci sto" mi dice. Poi tira su con il naso.
"Ah. Spaccio?"
"Eeeeh. Avevo il trecentoquattordici: estorsione, il trecentodiciassette: estorsione aggravata, il quattrocentoventi: associazione a delinquere, mi hanno incastrato."
"Estorsione vuol dire.."
"Sì, poi mi hanno dato l'aggravata perchè dicono che ho fatto delle rapine ad Ancona, con passamontagna e tutto, con la pistola, mi dicono che hanno le prove, ma io ho parlato col mio avvocato."
"Scusa, ma quanto sei stato dentro?"
"Quattro anni."
"Cazzo. Tutti di fila?"
"Ogni tanto sono uscito, andavo in tribunale, poi a casa, ma non potevo stare in giro. Poi ne ho fatti anche un po' di fila."
"Ah. E ora?
"Posso andare in giro di giorno, ma alle otto devo essere a casa. Aspetta, che ore sono adesso?"
"Sette e dieci, devi firmare?"
"No, passano in macchina, basta che mi affaccio alla finestra e quelli stanno tranquilli, altrimenti mi danno evasione."
"E per quanto tempo?"
"Finchè non mi trovo un lavoro, mi hanno detto."
"E stai cercando qualcosa?"
"Ha! Ma ti sembra che io vado a fare il negro nei campi con te che mi dai le bastonate sulla schiena? Col cazzo. Quelli le catene le vanno a mettere a degli altri. Devo farmi otto ore in una fabbrica per uscire con la voglia di spararmi e per averci uno stipendio da fame? Col cazzo. Non ci metti me. Se vuoi ci metti i.. i Pakistani, se quelli lì vogliono fare gli schiavi. Quando spacciavo andava bene: me ne stavo in giro. A Milano, Parma, Roma. Avevo sempre qualche bella ragazza con me, avevo un buon giro di gente che conoscevo. A Tigurtina ci avevo un gruppo di amici: se tu mi facevi un ordine grosso io prendevo e andavo a comprare il fumo, poi ci incontravamo al parco, provavamo il fumo insieme, poi mi davi i soldi e via."
"Scusa, ma a quanto lo mettevi?"
"Mah, io ero onesto, per un kilo.. un kilo te lo facevo a duemila e cinque duemila e sei, ma era quello buono."
"E come hanno fatto a prenderti?"
"Ma boh, mi hanno detto che avevano le intercettazioni, dicevano che avevo il giro della roba. Ma io gli ho detto: senta, signor presidente, è vero. Mi faccio qualche canna, vado al sert e mi faccio seguire, ma a me dello spaccio non frega niente. Voi non avete le prove che sto nello spaccio. Certo, compro il fumo, ma non spaccio. Ma quelli mi hanno tirato fuori i numeri delle telefonate dal 2002."
"Cioè, è dal duemiladue che hai il telefono sotto controllo?"
"E chi cazzo se lo immaginava che dal duemiladue questi stavano ad ascoltare i fatti miei?"
"E sono bastate le intercettazioni a incastrarti?"
"Ma no, poi hanno tirato fuori dell'altra roba, hanno detto che sono andato ad Ancona a fare delle rapine, che loro ci avevano le prove."
"Un bel casino."
"See. E poi mi hanno messo nell'AS a Roma. Voglio dire, l'Alta Sicurezza, che io con gli altri non ci sto."
"Cosa vuol dire scusa?"
"Mah, hanno provato a mettermi con dell'altra gente in cella, ma io gli ho tirato un cazzotto in faccia a quello, ché già mi stava sul cazzo. Io in cella ci sto da solo, senza rotture di coglioni."
"E com'era stare dentro?"
"Nell'AS c'era la gente più pericolosa, quelli che hanno fatto le cose grosse: mafia, associazione con la mafia, roba del genere. In carcere ci sono i bracci. Io stavo vicino agli infami. Ma ti ho lasciato il mio numero?" mi chiede. Poi tira su con il naso.
"No, non me lo hai lasciato, ma chi erano gli infami?"
"Dai allora che te lo lascio."
"No, guarda, poi intercettano anche me."
"Eeeeh. Scheda nuova."
"Già. Non saprei, poi magari mi viene voglia di riprendere a fumare, forse è meglio di no."
"Ma dai, a parte quello. Te lo lascio, così. Poi ho smesso di spacciare, te l'ho detto."
"Magari dopo. Ma non mi hai detto chi erano gli infami."
"Ok. Erano quelli che stavano nel braccio vicino al mio. Reati di violenze, stupri e robe varie. Io li vedevo quando avevano l'ora d'aria. Il cortile era proprio sotto la mia finestra e io parlavo con un Albanese che diceva che avevano incastrato pure lui. Gli avevano fatto un mandato d'arresto in Albania perchè una lo aveva denunciato per violenza. Poi però lo hanno preso in Italia perchè quel reato ha il mandato d'arresto internazionale. Lui diceva che non era vero niente: la tipa era stata a casa sua, gli aveva fatto un bocchino e il giorno dopo lo aveva denunciato. Io però qualche sigaretta gliela allungavo lo stesso. E poi chi lo sa come stanno le cose?"
"Già. Nessuno."
Nel frattempo siamo arrivati a una fermata in mezzo al nulla. Il marocchino che non mi ha detto il suo nome si alza e si avvicina alla porta che sta proprio di fianco a dove siamo seduti noi. Le porte si aprono, mi fa un cenno di saluto, poi fa per scendere. Però invece di scendere si ferma sui gradini, si gira e mi fa: "Ma poi te l'ho lasciato il mio numero oppure no?"
Non so per quale ragione, ma a quel punto io stacco la schiena dal sedile, lo guardo con le sopracciglia alzate, metto le mani all'altezza della testa come se si trattasse di una rapina e gli rispondo: "No, no" e gli faccio un sorriso.
Lui tira su con il naso, poi si gira, finisce di scendere i gradini e scompare, avvolto dal buio e dalla merda che piove dal cielo.


Otrebor Red RuM

sabato

QEA: come si fa a morire di fame, se si sta seduti su una montagna d'oro?

Porca troia la merda avevo scritto il post più bello della mia vita sulla neve, l'ovattamento e le sensazioni e la creatività e il computer di merda milanese me l'ha cancellato.Ma io non cedo.Lo riscriverò, anche se sarà diverso,cazzo era bellissimo, era una gran idea! Cazzo, vaffanculo, il computer su cui sto scrivendo e il coltan con il quale sono fatti tutti gli apparecchi elettronici del mondo (cellulari,iPod,computer, blackberry...). Ma sapete dov'è l'80% di questo materiale(del coltan)? Nella RDC (Repubblica Democratica del Congo) ed è per questo che adesso là, c'è la guerra civile perchè le multinazionali ue,usa,asiatiche vogliono fare in modo che il governo sia debole ed instabile e così fare quello che vogliono sul territorio congolese. La realtà è molto più complessa, ma siccome mi sono documentato sulla facenda per 2 settimane è bello dare una conclusione così stereotipata che non rispecchia assolutamente la mia conoscenza in materia, anche se in realtà è solo una delle tante conseguenze/cause della vicenda, ma è quella che si sente sempre dire e allora dato che i lettori/scrittori, sono soliti non dare conclusioni stereotipate, allora io questa volta la dò, perchè in questo blog si scrive sempre il meno stereotipato possibile. Tornando alla RDC...In economia ambientale si chiama "La maledizione delle risorse naturali". La RDC, da non confondersi con la confinante Rep. del Congo, ne è piena: petrolio,diamanti,coltan( dal minerale tantalio). E' facile boicottare i diamanti, voglio vedere boicottare i cellulari ed i computer e lo dico ai cari "comunisticontroilsistema" Peccato che se la RDC chiudesse le sue miniere (chiamarle miniere è fargli un complimento dato che è stato calcolato che con un anno di lavoro lì dentro invecchi 3 anni) in cui si scava con le mani in una poltiglia contaminata in cui c'è il tantalio, entro 1 anno non ci sarebbe più la materia prima per fare questi prodotti, per noi fondamentali.
E invece no, con tutta la ricchezza che hanno sono poverissimi e malandatissimi, pensate solo che tutti i congolesi hanno di base la malaria. E potrei andare avanti all'infinito, narrandovi le sciagure di questo Paese, ma tutto questo non ci solleverebbe dalla consuetudine, che purtroppo, come si diceva in un famoso film, recita così: QEA.

Questo post è stato realizzato a causa di un difetto applicativo causato dal coltan, che altrimenti avrebbe visto la pubblicazione per la quale il Violento si è sfogato all'inizio.

Jaco

ps mi han detto di dirvi che a breve comparirà il post più introspettivo scritto da JVMilan

mercoledì

Concettina

Mi hanno chiamato una settimana fa.
Era una voce incerta ma squillante. Si chiamava Concettina, me lo disse subito, e lavorava per una azienda di cui non ricordo il nome. Ora anch’io sto lavorando in questa azienda e tuttavia non ne ricordo il nome. Non lo ricordo perché ad ogni telefonata che effettuo ne devo utilizzare uno diverso. Propriamente non è quindi che non me lo ricordi, ma piuttosto non lo conosco. Ecco, non lo conosco affatto. Ora che ci penso attentamente: non l’ho mai conosciuto.
Non conosco il nome dell’azienda in cui da una settimana lavoro. Ecco, è necessario essere precisi quando non si parla di niente. Il rischio di essere fraintesi è molto alto; me l’ha insegnato il dottor Toad.

Concettina mi disse che la sua organizzazione, non so che perifrasi usò, cercava dipendenti. Io ero disoccupato e privo di idee, perciò mi recai al colloquio. Si trattò di una chiacchierata molto breve: il dottor Toad mi chiese se amavo i gatti; io dissi di sì. Poi mi domandò se avevo mai posseduto, in vita mia, un gatto rosso di nome Tim. Io risposi di no. Il dottor Toad restò in silenzio e mi scrutò attentamente. Io, con lieve imbarazzo, gli chiesi se la risposta fosse quella giusta ed egli sorrise allegramente: “Non esistono risposte giuste, ragazzo.”
Mi assunsero.
Il dottor Toad mi spiegò che il lavoro consisteva nel telefonare ai potenziali dipendenti (ognuno è un potenziale dipendente) per proporre anche a loro una vantaggiosa occupazione. Capii immediatamente di essere finito subito ai piani alti, ai piani concettuali, ai piani di Concettina. Immaginai che, se gli ero piaciuto così tanto da farmi balzare direttamente ad un ruolo dirigenziale, neppure il dottor Toad dovesse aver mai avuto un gatto rosso di nome Tim.

Lavorare non era faticoso. Dovevo restare per otto ore seduto alla mia scrivania, con i pannelli di plastica a separarmi dai colleghi, e dovevo telefonare. Mi era stato assegnato un comune, non ricordo neppure quale. Elenco telefonico alla mano avrei dovuto contattare ogni abitazione per domandare se ci fosse qualcuno interessato ad un posto di lavoro.
Avevo un elenco con 100 nomi di aziende e dovevo alternarli: una volta telefonavo per conto della Toad imballaggi. Poi la Toad pompe funebri. O innumerevoli NonNecessariamente Toad. O magari Toad&Toad immobiliare. Fratelli Toad Records, AuTOADmobili, Toad procreazione assistita eccetera eccetera.
Era divertente; potenzialmente noioso ma a tratti stimolante. A volte scommettevo su quanti secondi sarei durato, li scrivevo su un fazzoletto di carta e poi guardavo i numeri scorrere sul quadrante del telefono. Vincevo sempre quando ero modesto, perché in effetti non avevo molto successo: spesso non mi lasciavano neppure terminare il motto iniziale e riattaccavano. Ma qualcuno ogni tanto accettava; li intuivo con lieve anticipo misurando l’ansia con cui rispondevano. Quando riscontravo un interesse, anche se flebile, premevo il pulsante rosso del mio telefono e passavo la chiamata all’interno 5, dove il dottor Toad fissava l’appuntamento. Così come aveva fatto con me.

Passarono in questa maniera una manciata di giorni. Finché un giovane, col tono scettico e l’accento da ricco viziato, mi domandò di che cosa si occupasse la nostra azienda. Gli risposi che io, ad esempio, ero stato assunto ed ero subito passato al reparto assunzioni. Gli dissi anche che, nello stanzone dove si ergevano le pareti di plastica che erano il mio ufficio, vi erano almeno altri cento loculi simili, e che tutti i miei colleghi si occupavano di ricercare nuovo personale.
“Sì.” Disse lui. “Ma questo personale, alla fine, cosa andrà a fare?”
Io non seppi rispondere e pensai che non tutti sono così fortunati da saltare la gavetta. Ma, notando in lui un certo interesse, lo passai senza dir nulla all’interno 5.
Da quel giorno, che era poi ieri, nacque però in me un inaspettato dubbio. Aprii il cassetto ed estrassi il contratto d’assunzione, con in calce la mia firma. Non vi era la denominazione di nessuna azienda e neppure riferimenti ad eventuali attività produttive. L’unico nome presente sul foglio era quello del dottor Toad.
Mi recai da lui.

“Salve dottor Toad.” Dissi. “Avrei un paio di domande da porle.”
“Dica pure.” Rispose lui, con quella sua aria fine e blasè da gran signore. “Dica pure.” E guardò l’orologio, per farmi capire subito di non avere molto tempo a disposizione.
“Mi scusi, eh, ma volevo domandarle di cosa si occupa la nostra azienda?”
“Di procacciare personale.” Sorrise lui, stupito dalla mia ingenuità. “Perché, lei quando telefona cosa fa?” Mi chiese. “Vende forse enciclopedie?”
“No, ecco.” Balbettai. “Il punto è che -mossi le mani facendole roteare su loro stesse per spiegare la circolarità dei miei pensieri- insomma, noi procacciamo personale ma poi questo personale dovrà pur servire a qualcosa?”
Il dottor Toad sorrise. “Certo.” E sembrava che stesse iniziando una lunga prolusione. Ma poi restò zitto e mi fisso, come se quel certo significasse tutto ciò che era possibile dire.
Allora io lo guardai con aria interrogativa e sbattei gli occhi: “Cosa?”
“Cosa… cosa?” Sghignazzò lui.
“Cosa fanno?”
Il dottor Toad manifestò genuino stupore. “Chi?”
“I nuovi assunti.” Precisai io, un po’ stizzito.
Il dottor Toad aprì le braccia e si accarezzò la pancia, facendo scivolare la mano sotto al doppiopetto beige. “Quello che fa lei.” E sorrise di nuovo. Sembrava che il suo sorriso giungesse ogni volta alla massima apertura, ma al fuoriuscire di ogni sillaba si ampliava maggiormente. Pensai che, se fossimo stati in quella stanza per due giorni a parlare, il suo sorriso avrebbe potuto lambire i muri e riempire tutto lo spazio.
“Quello che fa lei.” Ripeté. “Procacciano personale.”
“Ok, ok.” Dissi di nuovo io, cercando di riordinare le idee. “Ok. Ma questo personale dovrà pur fare qualcosa, prima o poi. Ora, io so che lei mi risponderà: procacciare del nuovo personale. Ma questa è una non-risposta, insomma… non vale. L’azienda non starebbe in piedi, non avrebbe senso. Quindi mi dica, seriamente: di cosa si occupano i nuovi assunti?”
Il dottor Toad mi sorrise e premette le dite la une contro le altre, facendole schioccare, poi guardò annoiato l’orologio e, rivoltosi di nuovo a me, ampliò smisuratamente il diametro del suo assurdo sorriso. “Si occupano di procacciare del nuovo personale.” Disse con puntualità, aprendo gioiosamente le braccia. “La prego di scusarmi, ora.” Aggiunse. “Ma ho un appuntamento.” E mentre uscivo dal suo ufficio, salutandolo, non smise mai di sorridere.

Ecco.
Ora sono qui. Di fronte al telefono. Ho l’elenco fra le mani e annuso il suo profumo di carta riciclata. Mi dico che avrei dovuto insistere maggiormente con il dottor Toad, ma poi penso al suo assurdo sorriso e mi rimetto a lavorare. Digito il numero di un cognome a cui non faccio neppure caso. Mentre mi preparo a srotolare la solita litania -ho scelto la NonNecessariamente Toad prodotti religiosi- mi accorgo che la voce dall’altro capo del filo non mi sembra affatto nuova.
Finisco di parlare: “La nostra azienda… nuovo personale… colloquio… eccetera eccetera.”
“Sì grazie, sono interessata.” Risponde.
In questo momento la riconosco. È lei. Sì, è proprio lei. Ricordo la sua tonalità. Esito, perché in realtà la ricordo lievemente differente. Allora avvicino l’indice della mano destra al pulsante rosso. Poi esito di nuovo. Sto per schiacciare, sto per passarla all’interno 5. Accarezzo la plastica luccicante, ma prima di premerla trovo finalmente il coraggio per porre la mia domanda: “Mi scusi.” Balbetto. “Le dispiacerebbe dirmi il suo nome?”
Segue un lungo attimo di silenzio, che mi pare di aver già vissuto infinite volte, poi la sua voce parla di nuovo; è incerta ma squillante.
“Mi chiamo Concettina.” Dice.