mercoledì

Concettina

Mi hanno chiamato una settimana fa.
Era una voce incerta ma squillante. Si chiamava Concettina, me lo disse subito, e lavorava per una azienda di cui non ricordo il nome. Ora anch’io sto lavorando in questa azienda e tuttavia non ne ricordo il nome. Non lo ricordo perché ad ogni telefonata che effettuo ne devo utilizzare uno diverso. Propriamente non è quindi che non me lo ricordi, ma piuttosto non lo conosco. Ecco, non lo conosco affatto. Ora che ci penso attentamente: non l’ho mai conosciuto.
Non conosco il nome dell’azienda in cui da una settimana lavoro. Ecco, è necessario essere precisi quando non si parla di niente. Il rischio di essere fraintesi è molto alto; me l’ha insegnato il dottor Toad.

Concettina mi disse che la sua organizzazione, non so che perifrasi usò, cercava dipendenti. Io ero disoccupato e privo di idee, perciò mi recai al colloquio. Si trattò di una chiacchierata molto breve: il dottor Toad mi chiese se amavo i gatti; io dissi di sì. Poi mi domandò se avevo mai posseduto, in vita mia, un gatto rosso di nome Tim. Io risposi di no. Il dottor Toad restò in silenzio e mi scrutò attentamente. Io, con lieve imbarazzo, gli chiesi se la risposta fosse quella giusta ed egli sorrise allegramente: “Non esistono risposte giuste, ragazzo.”
Mi assunsero.
Il dottor Toad mi spiegò che il lavoro consisteva nel telefonare ai potenziali dipendenti (ognuno è un potenziale dipendente) per proporre anche a loro una vantaggiosa occupazione. Capii immediatamente di essere finito subito ai piani alti, ai piani concettuali, ai piani di Concettina. Immaginai che, se gli ero piaciuto così tanto da farmi balzare direttamente ad un ruolo dirigenziale, neppure il dottor Toad dovesse aver mai avuto un gatto rosso di nome Tim.

Lavorare non era faticoso. Dovevo restare per otto ore seduto alla mia scrivania, con i pannelli di plastica a separarmi dai colleghi, e dovevo telefonare. Mi era stato assegnato un comune, non ricordo neppure quale. Elenco telefonico alla mano avrei dovuto contattare ogni abitazione per domandare se ci fosse qualcuno interessato ad un posto di lavoro.
Avevo un elenco con 100 nomi di aziende e dovevo alternarli: una volta telefonavo per conto della Toad imballaggi. Poi la Toad pompe funebri. O innumerevoli NonNecessariamente Toad. O magari Toad&Toad immobiliare. Fratelli Toad Records, AuTOADmobili, Toad procreazione assistita eccetera eccetera.
Era divertente; potenzialmente noioso ma a tratti stimolante. A volte scommettevo su quanti secondi sarei durato, li scrivevo su un fazzoletto di carta e poi guardavo i numeri scorrere sul quadrante del telefono. Vincevo sempre quando ero modesto, perché in effetti non avevo molto successo: spesso non mi lasciavano neppure terminare il motto iniziale e riattaccavano. Ma qualcuno ogni tanto accettava; li intuivo con lieve anticipo misurando l’ansia con cui rispondevano. Quando riscontravo un interesse, anche se flebile, premevo il pulsante rosso del mio telefono e passavo la chiamata all’interno 5, dove il dottor Toad fissava l’appuntamento. Così come aveva fatto con me.

Passarono in questa maniera una manciata di giorni. Finché un giovane, col tono scettico e l’accento da ricco viziato, mi domandò di che cosa si occupasse la nostra azienda. Gli risposi che io, ad esempio, ero stato assunto ed ero subito passato al reparto assunzioni. Gli dissi anche che, nello stanzone dove si ergevano le pareti di plastica che erano il mio ufficio, vi erano almeno altri cento loculi simili, e che tutti i miei colleghi si occupavano di ricercare nuovo personale.
“Sì.” Disse lui. “Ma questo personale, alla fine, cosa andrà a fare?”
Io non seppi rispondere e pensai che non tutti sono così fortunati da saltare la gavetta. Ma, notando in lui un certo interesse, lo passai senza dir nulla all’interno 5.
Da quel giorno, che era poi ieri, nacque però in me un inaspettato dubbio. Aprii il cassetto ed estrassi il contratto d’assunzione, con in calce la mia firma. Non vi era la denominazione di nessuna azienda e neppure riferimenti ad eventuali attività produttive. L’unico nome presente sul foglio era quello del dottor Toad.
Mi recai da lui.

“Salve dottor Toad.” Dissi. “Avrei un paio di domande da porle.”
“Dica pure.” Rispose lui, con quella sua aria fine e blasè da gran signore. “Dica pure.” E guardò l’orologio, per farmi capire subito di non avere molto tempo a disposizione.
“Mi scusi, eh, ma volevo domandarle di cosa si occupa la nostra azienda?”
“Di procacciare personale.” Sorrise lui, stupito dalla mia ingenuità. “Perché, lei quando telefona cosa fa?” Mi chiese. “Vende forse enciclopedie?”
“No, ecco.” Balbettai. “Il punto è che -mossi le mani facendole roteare su loro stesse per spiegare la circolarità dei miei pensieri- insomma, noi procacciamo personale ma poi questo personale dovrà pur servire a qualcosa?”
Il dottor Toad sorrise. “Certo.” E sembrava che stesse iniziando una lunga prolusione. Ma poi restò zitto e mi fisso, come se quel certo significasse tutto ciò che era possibile dire.
Allora io lo guardai con aria interrogativa e sbattei gli occhi: “Cosa?”
“Cosa… cosa?” Sghignazzò lui.
“Cosa fanno?”
Il dottor Toad manifestò genuino stupore. “Chi?”
“I nuovi assunti.” Precisai io, un po’ stizzito.
Il dottor Toad aprì le braccia e si accarezzò la pancia, facendo scivolare la mano sotto al doppiopetto beige. “Quello che fa lei.” E sorrise di nuovo. Sembrava che il suo sorriso giungesse ogni volta alla massima apertura, ma al fuoriuscire di ogni sillaba si ampliava maggiormente. Pensai che, se fossimo stati in quella stanza per due giorni a parlare, il suo sorriso avrebbe potuto lambire i muri e riempire tutto lo spazio.
“Quello che fa lei.” Ripeté. “Procacciano personale.”
“Ok, ok.” Dissi di nuovo io, cercando di riordinare le idee. “Ok. Ma questo personale dovrà pur fare qualcosa, prima o poi. Ora, io so che lei mi risponderà: procacciare del nuovo personale. Ma questa è una non-risposta, insomma… non vale. L’azienda non starebbe in piedi, non avrebbe senso. Quindi mi dica, seriamente: di cosa si occupano i nuovi assunti?”
Il dottor Toad mi sorrise e premette le dite la une contro le altre, facendole schioccare, poi guardò annoiato l’orologio e, rivoltosi di nuovo a me, ampliò smisuratamente il diametro del suo assurdo sorriso. “Si occupano di procacciare del nuovo personale.” Disse con puntualità, aprendo gioiosamente le braccia. “La prego di scusarmi, ora.” Aggiunse. “Ma ho un appuntamento.” E mentre uscivo dal suo ufficio, salutandolo, non smise mai di sorridere.

Ecco.
Ora sono qui. Di fronte al telefono. Ho l’elenco fra le mani e annuso il suo profumo di carta riciclata. Mi dico che avrei dovuto insistere maggiormente con il dottor Toad, ma poi penso al suo assurdo sorriso e mi rimetto a lavorare. Digito il numero di un cognome a cui non faccio neppure caso. Mentre mi preparo a srotolare la solita litania -ho scelto la NonNecessariamente Toad prodotti religiosi- mi accorgo che la voce dall’altro capo del filo non mi sembra affatto nuova.
Finisco di parlare: “La nostra azienda… nuovo personale… colloquio… eccetera eccetera.”
“Sì grazie, sono interessata.” Risponde.
In questo momento la riconosco. È lei. Sì, è proprio lei. Ricordo la sua tonalità. Esito, perché in realtà la ricordo lievemente differente. Allora avvicino l’indice della mano destra al pulsante rosso. Poi esito di nuovo. Sto per schiacciare, sto per passarla all’interno 5. Accarezzo la plastica luccicante, ma prima di premerla trovo finalmente il coraggio per porre la mia domanda: “Mi scusi.” Balbetto. “Le dispiacerebbe dirmi il suo nome?”
Segue un lungo attimo di silenzio, che mi pare di aver già vissuto infinite volte, poi la sua voce parla di nuovo; è incerta ma squillante.
“Mi chiamo Concettina.” Dice.