lunedì

4 - Mandarini

I pesci boccheggiano nell’acquario, nuotando fra le sigarette spente che s’inabissano fino a posarsi sul fondo, in mezzo alle alghe e ai coralli finti. Per dare il colpo di grazia ai simpatici animaletti rossi, un ragazzo senza maglia versa Fernet Branca nell’acqua già torbida. C’è una ragazza in piedi sul divano, proprio di fianco alla finestra; le sue braccia sottili sono tese nell’aria e, con movimenti casuali, cercano d’intercettare i mandarini che arrivano dalla strada.
Il ragazzo, dopo aver finito la bottiglia nell’acquario, senza aver trascurato di scolarsene l’ultimo goccio, si sporge appena, riparandosi gli occhi con le mani. La strada è un mucchio di teste e braccia e corpi e gambe e soprattutto mandarini; dal piano di sotto, sotto alla camera in cui si sono chiusi il ragazzo e la ragazza, esce musica elettronica mista a grida. Ma ormai in casa non è rimasto più nessuno.
“Aprite! Aprite!” grida un giovane con il cappello, poi qualcuno gli mette in mano un mandarino e lui lo lancia, ridendo.
“Lasciateci scopare in pace.” Risponde il ragazzo alla finestra, con voce impastata, e poi si rivolge con lo sguardo alla ragazza in piedi sul divano, chiedendole assenso. Lei fa un cenno di sì e borbotta, divertita: “Ma dove li hanno presi tutti quei mandarini?”
I piedi scalpitano, le gambe zampettano fuori tempo, le teste ciondolano e le mani, quasi in automatico, scagliano mandarini.
Dopo qualche minuto di delirio i frutti arancioni finiscono, ma uno, entrando dalla finestra, ha colpito il lampadario della camera, rompendolo e regalando ai due ragazzi scampoli di buio. Dalla strada le urla continuano per tutta la notte e la musica rimbomba forte dalla sala, ma i due ragazzi non l’ascoltano più, perché hanno altro da fare, e neanche i pesci l’ascoltano più, perché sono morti.

3 - Sur la Seine

Lei si ergeva esile e statuaria sulla Senna, i piedi scalzi e graziosi avvolti in una polverosa nerezza poggiavano sul muretto, i suoi abiti tagliuzzati si muovevano gonfiati dall’aria tersa dell’autunno e i suoi occhi azzurri, che erano gli unici due puntini azzurri della notte parigina, fissavano asetticamente il lento scorrere del fiume.
“Non buttarti, amore mio.” Le disse lui, avanzando con falcate veloci ma eleganti. Si muoveva nel suo cappotto bucato, simile a un fantasma, e sollevava nell’aria, con la mano destra tremante, il pegno d’amore che lei credeva erroneamente lui le avesse sottratto.
“Tieni, amore.” Le disse, abbracciando le esili gambe, pallide come quelle di una regina antica, velate da calze strappate.
“Tieni, amore.” E le mise in mano il frusciante involucro marrone, all’interno del quale una bottiglia di vetro nero conserva le speranze di cui si abbeverano, nell’immaginario collettivo, i clochard di Parigi. Lei prese il sacchetto e se lo portò vicino alle labbra rossicce; stava per togliere il tappo e bere, mentre lui continuava a stringerle le gambe.
Ricordo che da quella distanza, dal café dove sorseggiavo l’ultima birra della serata, potevano sembrare davvero, per la loro lontananza o la mia opacità, figure poetiche di vagabondi o artisti o bohemien, e non due turisti ubriachi al termine di un lungo rincorrersi.
Ricordo di aver pensato “adesso scende”, proprio mentre coi suoi denti bianchi e piccolini, sfilava il tappo di sughero dalla bottiglia nera e, gettando uno sguardo in macchina, cioè verso la strada dove non c’era nessuno, se non la sua voglia di essere la scena clou di un qualche film, gettando uno sguardo in macchina piegò le gambe e contrasse i muscoli delle cosce. Poi saltò in alto e subito precipitò giù, come uno straccio o un abito infilato su una gruccia.

2 - Mike

Mike è entrato nel palazzo dall’ingresso secondario, perché la porta a vetri era bloccata dagli imbianchini che, seguendo le indicazioni dell’amministratore, stavano ridipingendo l’atrio. Salendo le scale per andare al quarto piano, al suo appartamento, ha estratto dalla tasca dei jeans un foglietto di carta a quadretti, consunto, piegato in modo irregolare, e l’ha riletto per l’ennesima volta.
I suoi piedi si sono bloccati sul terzo gradino e, dopo un attimo di esitazione, l’hanno riportato giù, al piano terra, dove i pittori schizzavano e stendevano mani rosa pallido. Mike ha preso un barattolo senza farsi vedere e, nascosto nel sottoscala, si è versato la vernice in bocca, affogandosi.

sabato

1 - Floz

Il camion della nettezza urbana ha svoltato in sgommata sulla cinquantaseiesima. L’autista doveva essere ubriaco o pazzo. Le ruote di sinistra si sono sollevate da terra e quelle di destra, che sostenevano tutto il peso della ferraglia, hanno cigolato.
L’auto di Floz sfrecciava nella direzione opposta, stava sorpassando un taxi a velocità eccessiva. Dal marciapiede si sentiva la musica uscire dai finestrini, era musica classica suonata forte come a un concerto rock. Ricordo di aver pensato “quello è Floz”, un attimo prima di scorgere il camion.
Un secondo dopo era tutto uno stridere di freni, uno schizzare di gomme sull’asfalto e poi, inevitabile, il botto. Pezzi di ferraglia contro i palazzi e urla e sirene e fumo nero. Il camion era entrato in profondità nell’auto di Floz, come un pugno, e le aveva fatto sputare vetri e metallo, stritolandola. Il corpo di Floz si era compresso e poi disgregato; un pezzo di braccio mi schizzò contro, facendomi rovesciare il caffè che avevo appena comprato da Starbucks.

venerdì

Without the help of Jesus

Si sentiva chiaramente quell'odore prodotto dalla somma di sudore e alcool e umanità, mentre luci bianche alogene pulsavano ad una velocita approssimativa di 12:sec facendo (in)volontariamente sembrare quella massa sociale dondolante/omogenea come dentro una esperienza post-nucleare nella quale balli propriziatori e trascendenze corporali tentavano di ottenere conforto o assoluzione da dèi ontologicamente immuni ad ogni tipo di esperienza terrena, nucleare o meno. Una persona al mio fianco, bassa, dal vestito leggero senza reggiseno si abbandona alle labbra e lingua stranamente bianca di una persona bionda a sua volta priva di reggiseno, mentre le sue braccia larghe ondulanti come in un flusso di aria invisibile paiono sottolineare la distanza tra la sua mente razionale ed il suo piacere momentaneo. Con la mano libera da un bicchiere tumbler grande quasi pieno di sostanze alcoliche stringo l'interno coscia di una delle due persone, provocando a tratti sospiri profondi che costringono (la persona) ad interrompere l'attività orale con seguente e lento assaporamento da parte dell'altra persona dei suoi (della persona) seni sui quali era visibile un sottile velo di sudore caldo e potenzialmente televisivo. La musica è assordante, un regolare suono elettronico vuoto di pretese eppure in grado di incantare, impulsi di una guerra fatta di nulla della quale tutti eravamo vittime temporanee. Mi accendo una sigaretta contro ogni legge sociale vigente - nessuno rispetta nessuna legge in guerra, penso - e osservo il fumo confondersi in quella cappa, sopra le teste delle persone dondolanti sotto il mio palco oltre i miei divanetti dietro la corda grossa e rossa protetta da una persona di colore che se fosse stata caucasica sarebbe apparsa semplicemente grassa. Passando la mano dentro i jeans stretti della persona - una delle due non ha importanza ovviamente - e sentendo la sua pelle curata e umida mentre la mia lingua che per quanto ne so potrebbe essere altrettanto bianca le assapora il capezzolo destro, lei mi prende la sigaretta non guardandomi attraverso due occhi stretti e che chiedono solo di essere uccisi di ormoni, e la fuma in un modo che non credevo possibile. La seconda persona è adesso impegnata a mordere il collo dell'altra e tenere la mano delicata e rosa dentro i miei pantaloni. La grossa persona di colore mi guarda e serio mi fa un cenno di assenso. Lo fisso alcuni secondi. Penso che non ho la minima idea di cosa sto facendo o cercando o evitando. Penso di voler poter essere normale.

EH 2