Faceva caldo, un caldo soffocante. Come fosse una pellicola da cucina, sentivo l'aria avvolgermi la pelle, in silenzio. Fuori dalla finestra un vento bollente faceva ogni tanto ondeggiare le foglie in bilico su sottili alberi di leccio, mentre da un posto lontano arrivava debole il suono di alcune cicale. Una nuvola finta restava immobile contro un cielo azzurro sbiadito. Nient'altro. Era mattina presto.
Seduto al tavolo provavo a fare colazione. Ogni cosa nella stanza sembrava avere una tonalità simile alla paglia, al grano maturo. Ero solo. Una goccia di sudore mi scivolò sulla fronte, fino a fermarsi poco sopra l'occhio sinistro. Feci un respiro profondo, cercando di raccogliere più aria possibile. Ero solo e provavo a fare colazione. Un cartone di latte fresco, sul quale iniziavano a formarsi vene d'acqua, era appoggiato sul tavolo davanti ai miei occhi, insieme ad alcuni biscotti al cacao. Pensai che avrei voluto ascoltare un disco di Kenny Burrell, lasciarlo mischiare al caldo denso, ma non trovai le forze. Rimasi così ad osservare i biscotti alcuni attimi, con la sensazione che si sarebbero potuti sciogliere da un momento all'altro.
All'improvviso il telefono iniziò a suonare. Era uno squillo ovattato, come se qualcuno avesse messo il tutto sotto il coperchio per il pane. Contai gli squilli che regolari si inseguivano. Quindi si interruppe, e tutto tornò al silenzio di prima. Presi un biscotto e lo infilai in bocca, sentendo le briciole di cacao posarmisi sulla lingua. Quindi, sentendo sotto le dita l'acqua che lo ricopriva, afferrai il cartone del latte e ne presi lunghi e lenti sorsi. La sensazione di fresco non durò che pochi istanti, ma non mi ero fatto nessuna illusione in proposito. Sarebbe stata la giornata più calda della mia vita, e non c'era nulla che potessi fare al riguardo.
Da dietro la porta socchiusa comparve Mia, che con la sua solita eleganza si avvicinò piano verso di me. I suoi movimenti calmi parevano adattarsi alla situazione più di altre volte, lasciando dietro i suoi passi un odore di soffice stanchezza. Con la coda verso l'alto, si fermò ad annusare le dita dei miei piedi nudi sotto al tavolo, per poi strusciarsi contro le altre sedie vuote, seguendo una danza sconosciuta. Trovato un angolo di ombra ci si andò poi a sedere, iniziando a leccarsi le zampe con aria annoiata. Ingoiai il mio secondo biscotto e chiusi gli occhi. Il caldo teneva appiccicati tra loro i pensieri, li appesantiva.
Fu quando li riaprii che mi accorsi della foto. Se ne stava lì, attraversata dalle gocce d'acqua sul cartone del latte. Era una foto in bianco e nero, sotto la quale si leggeva la parola SCOMPARSA, in caratteri blu come quelli sul resto della confezione. Allungando la mano lo avvicinai a me, nel tentativo di vedere meglio la fotografia. Una ragazza dai capelli corti legati in un codino sembrava osservare qualcosa oltre l'obbiettivo, senza che si potesse dire avesse una espressione particolare sul volto. Le sottili labbra erano chiuse, ed una collana di perle le scendeva intorno al collo snello. Pensai che avrebbe dovuto avere intorno ai ventisei anni, forse ventotto. Alle sue spalle non c'era nulla, solamente lo sfondo bianco del cartone del latte. Rilessi la parola SCOMPARSA un paio di volte, provando ad associarla alla foto appena sopra. Era una ragazza stupenda.
Intuire qualcosa di più era difficile. Ogni elemento era assente. Solo quel viso, il suo sguardo distratto, e la scritta blu. Provai ad osservare con attenzione dentro gli occhi scuri, cercando un riflesso, una qualche sottile emozione, ma senza risultato. La sola cosa che la foto lasciava passare era la bellezza di quella ragazza. Niente di più. Alzatasi in piedi, Mia si allungò nell'ombra, tenendo ferme le zampe davanti e la coda alta sul sedere. Rimase in quella posizione alcuni secondi, stirandosi tutta, poi si mise nuovamente seduta, ferma ad osservarmi. Ci guardammo senza dire nulla nel caldo sempre più denso, quindi miagolò.
Andai in cucina e presi una scatoletta di cibo dallo scaffale in alto mentre lei si strusciava gentilmente tra le mie gambe. La aprii e versai i pezzetti di carne gelatinosa nella sua vaschetta, poi buttai il resto nel cestino. Appoggiato al lavandino la osservai annusare con sospetto e mangiare con calma la sua colazione. Chissà quale era il suo nome, se era ancora viva. Chissà come era finita sul mio cartone di latte. Forse non era altro che una vecchia foto, e il caso era già stato risolto. Era tornata da chi la stava cercando, lasciando i consumatori di latte all'oscuro di tutto. SCOMPARSA. Mia mangiò tutto, e dopo aver preso un pò di latte dalla ciotola di fianco iniziò a leccarsi i baffi, tornando nel posto all'ombra dove si trovava prima. Immerso nei miei pensieri la seguii, lasciandomi cadere sul divano. A quel punto il telefono squillò per la seconda volta. Un suono strano, come provenisse dal fondo di un pozzo vuoto e umido.
-Chi parla? Anche la mia voce era calda, appiccicosa. Proprio come tutto il resto quella mattina.
-Non ha importanza-, rispose qualcuno dall'altra parte del telefono, -ciò che conta è che lei ha qualcosa che deve venire in nostro possesso. Ora, come può ben immaginare, vorremmo che ciò avvenisse senza problemi per nessuno.
Indeciso sulla realtà di ciò che stava succedendo rimasi in silenzio. Una breve pausa e la voce continuò.
-Abbiamo ragione di credere che lei sia in possesso di un oggetto per noi di estremo valore, e per il quale saremmo disposti a darle una cifra considerevole. Si tratta solo di trovare un accordo.
-Come fa a sapere chi sono. Chi le ha dato il mio numero. Chi diavolo è lei.- Mentre dicevo queste cose in tono monotono osservavo la nuvola nel cielo azzurro. Sempre nel solito punto esatto. Sempre immobile.
-Tutto questo non ha importanza, mi creda, la minima importanza. Le sto parlando a nome dell'Internazionale delle Mucche, e se non riusciremo a trovare un terreno di accordo, le cose potrebbero diventare spiacevoli per entrambi. Ma questo non significa nulla. So bene che lei si comporterà in modo razionale, e che ben presto tutto questo non sarà che acqua passata.- Un disturbo sulla linea accompagnava la voce nella cornetta, come giungesse da un luogo troppo lontano, troppo profondo.
EH16.
venerdì
martedì
Dead man thinking
Cammina nervosamente avanti e indietro. Suda nel tentativo di guardarci tutti in una sola occhiata. La nostra disposizione lo costringe a muovere continuamente le pupille da destra a sinistra. Da sinistra a destra. È teso. Forse in panico. Anch’io lo sono. Lo siamo tutti, credo. Io però posso permettermi di stare zitto. Di pensare. Riflettere. Posso permettermi di non fare passi falsi. Resto immobile, nascosto. A meno che lo stesso passare inosservati non sia un passo falso. Ecco, mi ha guardato. Io ho distolto gli occhi. Non va bene. NON VA BENE! Non devo distogliere gli occhi, ma non devo neanche guardarlo a testa alta. Distogliere è segno di debolezza, fissare di sfida. Devo fare - finta - di - niente. Non guardarlo mai, in modo da evitare di dover decidere tra distogliere e sfidare. Devo passare inosservato. A meno che lo stesso passare inosservati non sia un passo falso. Questo l’ho già detto. E se invece. Forse dovrei farmi notare. Potrebbe essere che. Ma sì, perchè no? Posare gli occhi spesso sulla stessa persona alla lunga potrebbe ispirare inconsapevolmente simpatia. Se la mia immagine gli diventa familiare, al momento della scelta opterà per la faccia più insignificante. Quella che ha tentato di passare inosservata, riuscendoci, decreterà la propria fine. Va bene. Allora devo farmi notare. Ma in che modo? Muovermi, parlare, soffiarmi il naso? Ogni scelta è estremamente pericolosa. Qualsiasi mio gesto può creare in lui una reazione. Noi non sappiamo quando. Ma succederà. Potrei infastidirlo. Potrebbe pensare che voglio dissuaderlo. Che tono di voce usare? Forse è meglio stare zitti e indifferenti. Non proprio nascosti, ma indifferenti. Però. La mia indifferenza potrebbe essere letta come strafottenza? Se è così meglio mostrarmi debole e distogliere. Abbassare lo sguardo. Anche se. Non mi sembra il tipo da provare compassione. Troverà ridicola la mia umiliazione. In fondo la strafottenza è una dote ammirevole. Per tipi come lui. Devo guadagnarmi il suo rispetto. Ora lo fisso negli occhi. Adesso. Tra un momento. Adesso lo fisso. Adesso. Adesso. Adesso. No, aspetta. Il rispetto infonde paura. E ciò che incute timore induce reazioni. I cani più pericolosi sono i più paurosi. Dove l’ho letto? S’è fermato. Ha trovato una posizione da cui controllarci tutti. Lo osservo con la coda dell’occhio. Respira più lentamente. Ma non è ancora tranquillo. Non lo sarà fino a quando tutto questo non sarà finito. Anch’io a quel punto lo sarò. In un modo o nell’altro. Che fa? Si direbbe che ci stia contando. Meglio non guardarlo ora. Se sapessi che criterio usa, accidenti. Forse dipende dall’ordine delle nostre sedie. Senz’altro è questa la chiave di lettura. Anche se lui crede di scegliere a caso, l’occhio vuole la sua parte. La sua mano si dirigerà verso un punto in grado di rispettare la simmetria. O di infrangerla. Ma sempre con criterio. Purtroppo non sono seduto vicino al morto. Altrimenti sarei salvo. Accidenti! PERCHÈ NON SONO SEDUTO VICINO AL MORTO? Io non farei mai due morti vicini. L’occhio vuole la sua parte. Questo l’ho già detto. Se togliamo i due vicini al morto rimaniamo papabili in tre. Accidenti. No. Calma. Calma. Devo capire. Se capisco il criterio saprò se fissarlo o distogliere. Compassione o rispetto. Se capisco il criterio. Ma questo l’ho già detto. Accidenti. Calma. Perchè sta fermo? Non si muove più. Accidenti. Sta lì. Fermo. Calma. Devo riflettere. Allora. Di noi tre il più esterno è salvo. Non sceglierei mai il più esterno. L’occhio vuole la sua parte. Inconsciamente o no, l’ha pensato anche lui. Lo dimostra il fatto che il morto è il secondo della fila. Non l’altro esterno. Di noi tre il più esterno non sono io. Accidenti. A questo punto tutto dipende dal suo carattere. Che fa adesso? Perchè si è mosso? Calma. C’è ancora tempo. Mi ha guardato. Sembra stanco. Se ama la simmetria sono salvo. Altrimenti. Devo capire che tipo è. Se è ordinato, per sicurezza meglio fissarlo negli occhi. Se è asimmetrico, distogliere. Ha ripreso a camminare. Sembra più tranquillo. Ha già deciso? Ha un lembo della camicia fuori dai pantaloni. Suda. Ma la sua faccia è ordinata. Simmetrica. Che fa? Ecco. Ha puntato la pistola. Tra poco tutto sarà finito. In un modo o nell’altro.
Cya'n Frèscha
giovedì
Vaulx en Velin
Stavo comodamente leggendo una conversazione telefonica tra C. Bukowski e E. Hemingway. Ad un tratto mi chino e inizio a tamburellare con le dita sulla punta delle scarpe. Decido quindi di uscire e di andare a Vaulx en Velin che è il capolinea della metro A.
Non sono mai stato a Vaulx en Velin, tranne una volta in cui ho preso la metro dalla parte sbagliata, ma quando sono sceso -era un pomeriggio con molto sole e molta luce- sono passato subito dalla parte opposta per tornare indietro. La sola cosa che ho pensato quella volta era sono stato anche a Vaulx en Velin, che è il capolinea della metro A, però non c'è niente, ma proprio niente che ti faccia pensare che potresti girarci, a meno che tu non abbia già un posto in cui andare.
Mi vesto ed esco. Charles Bukowsky, che si diceva emulo di Hemingway, mi ha insegnato stasera che quando fai qualcosa, se lo vuoi descrivere, devi mantenere una ritmica. Ad esempio se dico che esco e penso che fa freddo lo devo dire in due frasi staccate. Cioè prima le azioni, poi le descrizioni, oppure viceversa, è uguale. Quello che importa è che le azioni stiano con le azioni e le riflessioni con le riflessioni.Per cui esco e mi incammino verso la fermata della linea A. Analizzandomi scopro di essere uscito anche per prendere il latte e forse dei biscotti perchè sento qualcosa che potrei identificare alla voce fame.
E' un mercoledì sera dopo le nove, fa buio, in genere non si esce, per cui è naturale che qui piova. E' quella pioggia fine di cui non ti accorgi sempre, ma che non smette mai. Passo oltre la prima fermata perchè il negozio che ha aperto fino a tardi è più avanti, ma quando ci arrivo non entro perchè non amo camminare con una borsa di latte in giro a Vaulx en Velin.
Arrivo alla fermata Gratte Ciel. Dentro suona una musica caraibica. Alle sedie più vicine stanno seduti due arabi che chiacchierano. Giro a destra e vedo la serie di panchine di plastica rosse e vuote che seguono la linea del punto di fuga. Fanno contrasto con le mattonelle bianche della parete e il pavimento grigiastro. Mi si chiude lo stomaco, vorrei trovare un modo per far rivivere quelle panchine e lasciare che qualcuno possa sentirle rosse come me, in fila, vuote, silenziose. Non sono capace. Le vorrei dipingere. Le dovrei mettere in un graffito bianco con una striscia obliqua grigio scuro in fondo e delle macchie geometriche rosse che convergono verso la cima di una lettera. Probabilmente non basterebbe. Voglio farlo di più, meglio. Non sono capace di farlo in nessun altro modo, il che vuol dire che non sono capace e basta. Se fossi Davis riuscirei a farle suonare dalla tromba. Picasso le avrebbe dipinte da tre prospettive diverse.
Arriva la metro, salgo e mi siedo di fianco a un ragazzino nero che parla con un altro ragazzino dai capelli bianchi e la carnagione bianchissima che porta gli occhiali e un bastone da cieco. Tiene gli occhi socchiusi, gli tremano le palpebre. Ad un certo punto li apre appena un po' di più e io ci guardo dentro, ma non c'è niente. Sembra che gli si siano mangiati gli occhi, non ci sono, lì dove dovrebbero essere. Sembrano due ferite aperte che hanno appena smesso di sanguinare, pulite da cotone imbibito di disinfettante. Scendono alla fermata successiva. Allora mi concentro sulla nera che mi sta di fronte che siede obliqua appoggiata al finestrino. Sembra che mi emozioni, ma non riesco a pensarne nulla. La sento e basta. La sento perchè nasce dal senso di perfezione statica, i jeans, l'impermeabile panna con le pieghe e i bottoni, la maglietta rosa che si intravede, la pelle nera. Sarebbe perfetta in un quadro, lo spazio del sedile verde acqua orizzontale, lei una diagonale che taglia l'area sulla sinistra, le pieghe del cappotto che emergono.
Nel frattempo anche lei è scesa e non saprei più proporre lo stesso concetto graficamente. L'ho perso. Assenza di tecnica gridano dall'alto. Assenza di tecnica. Hai perso troppo tempo negli anni, l'adolescenza e il seguito, senza imparare la forma; per cui ora tutto si intasa di fronte a un'uscita con una serratura diversa. Probabilmente è così per la maggior parte degli uomini, che trovano un modo per calmarlo nelle donne nel cibo e nello sport. Però è solo un modo per stancarlo, non lo fai veramente uscire da te, non lo restituisci al pari di come ti è arrivato perchè non lo sai come si fa.
Arrivo a Vaulx en Velin. Le palme sono sempre lì, delle palme nella seminterrata della metro, con una grata sopra che le attacca al mondo. Esco. Ci sono le luci arancioni della strada, il cielo ha riguadagnato la maggior parte dello spazio. Non so dov'è il centro, c'è solo una strada e dei campi circondati da delle reti; praticamente attaccati all'uscita passano quattro binari del tramway. Mi incammino verso sinistra insieme a dei bimbi che sembrano zingari e che portano delle borse. Mi chiedono l'elemosina. Gli chiedo dove è il centro. Mi dicono che è verso di là, nella direzione che ho preso e che prendono anche loro. Gli do l'elemosina. Ci incamminiamo insieme. Sono due bimbe che cercano di passare per quattordicenni e un bimbo molto più basso. Mi dicono che sono romeni, che vivono nella casa disabitata, che il fratello maggiore è in prigione e che ha già fatto sei mesi ma che gli resta un anno.
Gli do una mano a portare le borse, ma non penso a quello che dicono perchè la mia testa è impegnata a processare gli spazi. Non c'è niente. Veramente niente. Dei campi al buio, le luci gialle, i binari e i sassi della ferrovia in penombra, una rete di separazione, il marciapiede, noi illuminati sul marciapiede, la strada illuminata più del resto, qualche macchina ogni tanto. Un parcheggio con tre macchine dall'altra parte della strada, circondato da una rete e con un lato limitato da un muro diroccato senza senso, ideale per un graffito. Ce n'è già uno gigante ma insignificante che è come se non ci fosse. Ad un certo punto sulla destra incrociamo una costruzione che sembra un acquedotto, a righe bianche e rosse, con la scritta Vaulx en Velin, attaccato a un capannone abbandonato con sopra delle tag. Camminiamo e il bimbo continua a chiedermi se ho degli altri spicci. Gli dico che mi servono per comprare il latte per domattina, allora è il turno della bimba che sembra più grande poi di quella che sembra più bimba. Continiuiamo a camminare e il bimbo fa un'imitazione dell'inglese che ci fa ridere, poi ad un certo punto mi dice di ridargli la borsa, al che lo accontento. Sono tutte borse piene di vestiti. Se le scambiano tra di loro poi gli dico che sul serio gli do una mano volentieri, allora se le scambiano di nuovo e me ne danno due, ma poi me ne richiedono una e alla fine me ne passano un'altra scambiandola con quella che mi restava. Arriviamo ad un incrocio e il bimbo e la bimba bimba svoltano e salutano me e la bimba grande. Dopo dieci metri lei mi indica dove abita, sono gli uffici abbandonati di una ditta, al di là di una rete sfondata, con un uomo incerto che fuma in un angolo vicino alle erbacce. Le ridò la borsa.
Continuo sulla strada senza sapere dove sia il centro, se ci sia un centro. Dove sono ora sembra l'inizio di una zona industriale soprattutto per le luci giallo-arancio. Entro in uno spiazzio ghiaiato non troppo grande separato dalla strada da dei mucchi di terra. Un posto con bancali di legno sfondati e imballi di cartone buttati tra le pozzanghere, un paio di jeans bagnati accartocciati. Lì vicino una ditta illuminata da fari bianchi. Passa un tramway. Il piovigginare copre i rumori, sono in un bolo di silenzio. Nessuno in giro, nessuna videocamera, nessuno interessato a seguire i movimenti di una persona che gira a vuoto in questo posto. Dovrebbe comunicarmi qualcosa. Continuo a sentirlo peggio delle altre volte, non posso focalizzarlo. E' un'esperienza inutile accumulabile sopra tante simili tra loro. Mi piacciono i posti che fanno schifo, ma questo forse l'ho già visto.
Da un angolo remoto l'eventualità di perdere l'ultima metro continua a riemergere allo stato cosciente. Si somma al ricordo del progetto di andare a dormire presto per studiare domattina. Se il negozio chiude ancora più tardi c'è il caso che tra poco mangi un pacco intero di biscotti, poi starò senz'altro meglio. Mi giro e torno alla fermata.
Isdcb/9137
Non sono mai stato a Vaulx en Velin, tranne una volta in cui ho preso la metro dalla parte sbagliata, ma quando sono sceso -era un pomeriggio con molto sole e molta luce- sono passato subito dalla parte opposta per tornare indietro. La sola cosa che ho pensato quella volta era sono stato anche a Vaulx en Velin, che è il capolinea della metro A, però non c'è niente, ma proprio niente che ti faccia pensare che potresti girarci, a meno che tu non abbia già un posto in cui andare.
Mi vesto ed esco. Charles Bukowsky, che si diceva emulo di Hemingway, mi ha insegnato stasera che quando fai qualcosa, se lo vuoi descrivere, devi mantenere una ritmica. Ad esempio se dico che esco e penso che fa freddo lo devo dire in due frasi staccate. Cioè prima le azioni, poi le descrizioni, oppure viceversa, è uguale. Quello che importa è che le azioni stiano con le azioni e le riflessioni con le riflessioni.Per cui esco e mi incammino verso la fermata della linea A. Analizzandomi scopro di essere uscito anche per prendere il latte e forse dei biscotti perchè sento qualcosa che potrei identificare alla voce fame.
E' un mercoledì sera dopo le nove, fa buio, in genere non si esce, per cui è naturale che qui piova. E' quella pioggia fine di cui non ti accorgi sempre, ma che non smette mai. Passo oltre la prima fermata perchè il negozio che ha aperto fino a tardi è più avanti, ma quando ci arrivo non entro perchè non amo camminare con una borsa di latte in giro a Vaulx en Velin.
Arrivo alla fermata Gratte Ciel. Dentro suona una musica caraibica. Alle sedie più vicine stanno seduti due arabi che chiacchierano. Giro a destra e vedo la serie di panchine di plastica rosse e vuote che seguono la linea del punto di fuga. Fanno contrasto con le mattonelle bianche della parete e il pavimento grigiastro. Mi si chiude lo stomaco, vorrei trovare un modo per far rivivere quelle panchine e lasciare che qualcuno possa sentirle rosse come me, in fila, vuote, silenziose. Non sono capace. Le vorrei dipingere. Le dovrei mettere in un graffito bianco con una striscia obliqua grigio scuro in fondo e delle macchie geometriche rosse che convergono verso la cima di una lettera. Probabilmente non basterebbe. Voglio farlo di più, meglio. Non sono capace di farlo in nessun altro modo, il che vuol dire che non sono capace e basta. Se fossi Davis riuscirei a farle suonare dalla tromba. Picasso le avrebbe dipinte da tre prospettive diverse.
Arriva la metro, salgo e mi siedo di fianco a un ragazzino nero che parla con un altro ragazzino dai capelli bianchi e la carnagione bianchissima che porta gli occhiali e un bastone da cieco. Tiene gli occhi socchiusi, gli tremano le palpebre. Ad un certo punto li apre appena un po' di più e io ci guardo dentro, ma non c'è niente. Sembra che gli si siano mangiati gli occhi, non ci sono, lì dove dovrebbero essere. Sembrano due ferite aperte che hanno appena smesso di sanguinare, pulite da cotone imbibito di disinfettante. Scendono alla fermata successiva. Allora mi concentro sulla nera che mi sta di fronte che siede obliqua appoggiata al finestrino. Sembra che mi emozioni, ma non riesco a pensarne nulla. La sento e basta. La sento perchè nasce dal senso di perfezione statica, i jeans, l'impermeabile panna con le pieghe e i bottoni, la maglietta rosa che si intravede, la pelle nera. Sarebbe perfetta in un quadro, lo spazio del sedile verde acqua orizzontale, lei una diagonale che taglia l'area sulla sinistra, le pieghe del cappotto che emergono.
Nel frattempo anche lei è scesa e non saprei più proporre lo stesso concetto graficamente. L'ho perso. Assenza di tecnica gridano dall'alto. Assenza di tecnica. Hai perso troppo tempo negli anni, l'adolescenza e il seguito, senza imparare la forma; per cui ora tutto si intasa di fronte a un'uscita con una serratura diversa. Probabilmente è così per la maggior parte degli uomini, che trovano un modo per calmarlo nelle donne nel cibo e nello sport. Però è solo un modo per stancarlo, non lo fai veramente uscire da te, non lo restituisci al pari di come ti è arrivato perchè non lo sai come si fa.
Arrivo a Vaulx en Velin. Le palme sono sempre lì, delle palme nella seminterrata della metro, con una grata sopra che le attacca al mondo. Esco. Ci sono le luci arancioni della strada, il cielo ha riguadagnato la maggior parte dello spazio. Non so dov'è il centro, c'è solo una strada e dei campi circondati da delle reti; praticamente attaccati all'uscita passano quattro binari del tramway. Mi incammino verso sinistra insieme a dei bimbi che sembrano zingari e che portano delle borse. Mi chiedono l'elemosina. Gli chiedo dove è il centro. Mi dicono che è verso di là, nella direzione che ho preso e che prendono anche loro. Gli do l'elemosina. Ci incamminiamo insieme. Sono due bimbe che cercano di passare per quattordicenni e un bimbo molto più basso. Mi dicono che sono romeni, che vivono nella casa disabitata, che il fratello maggiore è in prigione e che ha già fatto sei mesi ma che gli resta un anno.
Gli do una mano a portare le borse, ma non penso a quello che dicono perchè la mia testa è impegnata a processare gli spazi. Non c'è niente. Veramente niente. Dei campi al buio, le luci gialle, i binari e i sassi della ferrovia in penombra, una rete di separazione, il marciapiede, noi illuminati sul marciapiede, la strada illuminata più del resto, qualche macchina ogni tanto. Un parcheggio con tre macchine dall'altra parte della strada, circondato da una rete e con un lato limitato da un muro diroccato senza senso, ideale per un graffito. Ce n'è già uno gigante ma insignificante che è come se non ci fosse. Ad un certo punto sulla destra incrociamo una costruzione che sembra un acquedotto, a righe bianche e rosse, con la scritta Vaulx en Velin, attaccato a un capannone abbandonato con sopra delle tag. Camminiamo e il bimbo continua a chiedermi se ho degli altri spicci. Gli dico che mi servono per comprare il latte per domattina, allora è il turno della bimba che sembra più grande poi di quella che sembra più bimba. Continiuiamo a camminare e il bimbo fa un'imitazione dell'inglese che ci fa ridere, poi ad un certo punto mi dice di ridargli la borsa, al che lo accontento. Sono tutte borse piene di vestiti. Se le scambiano tra di loro poi gli dico che sul serio gli do una mano volentieri, allora se le scambiano di nuovo e me ne danno due, ma poi me ne richiedono una e alla fine me ne passano un'altra scambiandola con quella che mi restava. Arriviamo ad un incrocio e il bimbo e la bimba bimba svoltano e salutano me e la bimba grande. Dopo dieci metri lei mi indica dove abita, sono gli uffici abbandonati di una ditta, al di là di una rete sfondata, con un uomo incerto che fuma in un angolo vicino alle erbacce. Le ridò la borsa.
Continuo sulla strada senza sapere dove sia il centro, se ci sia un centro. Dove sono ora sembra l'inizio di una zona industriale soprattutto per le luci giallo-arancio. Entro in uno spiazzio ghiaiato non troppo grande separato dalla strada da dei mucchi di terra. Un posto con bancali di legno sfondati e imballi di cartone buttati tra le pozzanghere, un paio di jeans bagnati accartocciati. Lì vicino una ditta illuminata da fari bianchi. Passa un tramway. Il piovigginare copre i rumori, sono in un bolo di silenzio. Nessuno in giro, nessuna videocamera, nessuno interessato a seguire i movimenti di una persona che gira a vuoto in questo posto. Dovrebbe comunicarmi qualcosa. Continuo a sentirlo peggio delle altre volte, non posso focalizzarlo. E' un'esperienza inutile accumulabile sopra tante simili tra loro. Mi piacciono i posti che fanno schifo, ma questo forse l'ho già visto.
Da un angolo remoto l'eventualità di perdere l'ultima metro continua a riemergere allo stato cosciente. Si somma al ricordo del progetto di andare a dormire presto per studiare domattina. Se il negozio chiude ancora più tardi c'è il caso che tra poco mangi un pacco intero di biscotti, poi starò senz'altro meglio. Mi giro e torno alla fermata.
Isdcb/9137
Demodè
-Credo sarebbe molto triste fare delle domande dirette.
-Demodè.
-Già.
-Però vuoi dirmi qualcosa, e ci sono aspetti che non capisci del nostro rapporto.
-Dopo cinquant’anni sarebbe un eufemismo.
-Gli eufemismi sono demodè.
-Ci crederesti se ti dicessi che ho scelto di intitolare il nostro dialogo “incomprensioni”?
-Non lo farai.
-Hai sempre la meglio tu.
-Ma da quando metti i titoli ai nostri incontri?
-Dalla prima volta che ti amo.
-Sei proprio un barbiere.
-Il lavoro è il lavoro.
-C’è qualcosa di malsano nel fare il barbiere. Tu giochi con le forme degli altri e non ne cogli i frutti.
-È un po’ il senso del lavoro.
-E la nostra conversazione dove la metterai?
-Domani devo pettinare una modella. Inserirò il nastro per intrattenerla.
-Si annoierà.
-È esattamente il mio obbiettivo. Dopodichè diventerà docile.
-Che pervertito.
-Perché ridi tesoro? In fondo dovresti saperlo.
-Lo so.
-Che sono un pervertito.
-È per questo che ti amo.
-Da tanto non te lo sentivo dire.
-Amare è demodè.
-Certo.
-Ho un immagine da preservare.
-Tutti ce l’hanno.
-Sai, c’è una cosa che odio nell’ambiente accademico: il nozionismo.
-Non capisco il nesso.
-Gli accademici che insegnano il culto delle nozioni sono stucchevoli, decisamente demodè.
-Quindi?
-Ma d’altro canto detesto ancora di più… tu lo sai chi.
-Chi?
-Gli accademici che insegnano ai ragazzi a pensare, a fare a meno delle nozioni, ad essere creativi.
-Non ti capisco.
-Non tutti ne sono in grado. Spingendo a pensare chi non saprà mai farlo si finisce col contribuire alla genesi di perfetti idioti.
-È un po’ il senso dell’accademia.
-Amo la tua semplicità, tesoro.
-E mi permetterai di porti, finalmente, una domanda diretta?
-D’accordo. Avanti. Qual è il problema?
-L’ho dimenticato.
-Oh, dimenticare è terribilmente demodè.
-È un po’ il senso dei ricordi.
-Cosa?
-Essere dimenticati.
-La fai troppo semplice.
-È un po’ il senso del dialogo.
-Già. Parlare è così demodè.
-Come vuoi tu.
Alfonso D’Este
-Demodè.
-Già.
-Però vuoi dirmi qualcosa, e ci sono aspetti che non capisci del nostro rapporto.
-Dopo cinquant’anni sarebbe un eufemismo.
-Gli eufemismi sono demodè.
-Ci crederesti se ti dicessi che ho scelto di intitolare il nostro dialogo “incomprensioni”?
-Non lo farai.
-Hai sempre la meglio tu.
-Ma da quando metti i titoli ai nostri incontri?
-Dalla prima volta che ti amo.
-Sei proprio un barbiere.
-Il lavoro è il lavoro.
-C’è qualcosa di malsano nel fare il barbiere. Tu giochi con le forme degli altri e non ne cogli i frutti.
-È un po’ il senso del lavoro.
-E la nostra conversazione dove la metterai?
-Domani devo pettinare una modella. Inserirò il nastro per intrattenerla.
-Si annoierà.
-È esattamente il mio obbiettivo. Dopodichè diventerà docile.
-Che pervertito.
-Perché ridi tesoro? In fondo dovresti saperlo.
-Lo so.
-Che sono un pervertito.
-È per questo che ti amo.
-Da tanto non te lo sentivo dire.
-Amare è demodè.
-Certo.
-Ho un immagine da preservare.
-Tutti ce l’hanno.
-Sai, c’è una cosa che odio nell’ambiente accademico: il nozionismo.
-Non capisco il nesso.
-Gli accademici che insegnano il culto delle nozioni sono stucchevoli, decisamente demodè.
-Quindi?
-Ma d’altro canto detesto ancora di più… tu lo sai chi.
-Chi?
-Gli accademici che insegnano ai ragazzi a pensare, a fare a meno delle nozioni, ad essere creativi.
-Non ti capisco.
-Non tutti ne sono in grado. Spingendo a pensare chi non saprà mai farlo si finisce col contribuire alla genesi di perfetti idioti.
-È un po’ il senso dell’accademia.
-Amo la tua semplicità, tesoro.
-E mi permetterai di porti, finalmente, una domanda diretta?
-D’accordo. Avanti. Qual è il problema?
-L’ho dimenticato.
-Oh, dimenticare è terribilmente demodè.
-È un po’ il senso dei ricordi.
-Cosa?
-Essere dimenticati.
-La fai troppo semplice.
-È un po’ il senso del dialogo.
-Già. Parlare è così demodè.
-Come vuoi tu.
Alfonso D’Este
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